LEZIONI SUI POTERI CONOSCITIVI NEL DIRITTO TRIBUTARIO – Lezione 3
Tempo di Lettura: 7 minutiI principi di diritto internazionale
1. La limitazione territoriale del potere
1.1. La nozione di territorialità
L’idea del territorio e quella, alla prima intrinsecamente connessa, del “confine” sono strettamente correlate a quella di Stato.
Solo con l’affermazione dello Stato moderno, si è anche affermata l’idea che lo “spazio” territoriale era elemento costitutivo della collettività e, quindi, della sua organizzazione politica e dei correlati “poteri” che in essa trovano espressione e fondamento.
Il concetto può essere compreso meglio riflettendo sul fatto che, al contrario, l’organizzazione politica pre-esistente, il Sacro Romano Impero, aveva, concettualmente almeno, una struttura universale. Conseguentemente, sebbene anche l’Impero operasse in una dimensione spazialmente limitata, il limite territoriale era di mero fatto e non assumeva un valore giuridicamente e politicamente qualificante.
Anche nella fase di sviluppo dello Stato, quando cioè alcune forme di organizzazione statuale esistevano a livello embrionale e convivevano con il Sacro Romano Impero, la dimensione territoriale era molto elastica e, ad esempio, non si avvertiva nessuna contraddizione nel fatto che il sovrano d’Inghilterra potesse essere anche, quale Duca di Normandia, un vassallo del Re di Francia.
Solo con l’affermarsi di una nozione politicamente compiuta di Stato, nel senso tecnicamente corretto di questa espressione, la “sovranità” – intesa quale sintesi del complesso dei poteri esercitabili con riferimento alla collettività organizzata che costituisce lo Stato, diventa “territorialmente esclusiva”.
Tale “esclusività”, in particolare, assume una doppia dimensione. Da un lato, la sovranità è esclusivamente territoriale perché essa è esercitabile solo nell’ambito dei confini territoriali che identificano un determinato Stato; dall’altro, tale esclusività sussiste perché nessun altro Stato può esercitare poteri sovrani nel territorio altrui. Il territorio individua un limite interno (ossia la sovranità di uno Stato non si estende oltre i suoi confini) e un limite esterno (in quanto nessuna altra sovranità può operare nei confini di un determinato Stato). Val quanto dire che ciascun potere sovrano “occupa” un unico spazio e lo “occupa” sempre da solo (senza mai condividerlo con alcuno).
Questa è, ovviamente, la concezione “pura” della sovranità che ha il suo fondamento concettuale – anzi, più propriamente, ideologico nel fatto che essa non è pensata come un dato relazionale – perché altrimenti la reciproca esclusività della sovranità sarebbe un dato ovvio: la sovranità di uno Stato finisce là dove inizia quella di altro Stato – bensì come un “ente” dotato di proprie caratteristiche. L’immagine alla quale si potrebbe ricorrere è quella del “liquido” che riempie un determinato contenitore: ciascun determinato “liquido” (ossia la sovranità di ciascuno Stato) può essere collocata in un solo recipiente (il territorio) e un determinato recipiente può contenere solo un determinato “liquido”.
Naturalmente, tale concezione “pura” della sovranità è puramente ideale. Nella realtà concreta la sovranità è un dato relazionale e, quindi, i suoi limiti non sono equiparabili alle caratteristiche fisiche di un oggetto (o, come nell’esempio fatto, di un liquido). Cosicché, in effetti la sovranità di ciascuno Stato ha trovato sempre il suo vero limite non già nei confini territoriali (ossia nel recipiente), ma nella sovranità altrui.
In misura diversa a seconda delle varie epoche sono sempre sussistite compressioni, limitazioni, cessioni della sovranità. E la stessa sovranità non si presenta come un elemento monolitico, perché assume diversa intensità a seconda del suo oggetto: p.es. se è impensabile, forse anche ai nostri giorni, che la sovranità militare di uno Stato (ossia il potere di comando sulle forze armate che è uno dei profili della sovranità) possa estendersi alle forze armate di un altro Stato, viceversa è assai più semplice pensare – anche nella prospettiva di una visione “pura” della sovranità – che il sovrano di uno Stato possa attribuire onorificenze o titoli nobiliari o simili ai sudditi di un altro sovrano.
Se si ha presente, quindi, il significato della nozione di territorialità – e la coesistenza di un concetto “ideale” con una sua dimensione “reale” – si comprenderà come i limiti territoriali delle sovranità e dei vari elementi che la compongono sono variabili a seconda delle epoche e dei contesti storico ed economico.
In particolare, come diremo, l’avvento della “globalizzazione” non poteva non determinare profonde trasformazioni nella nozione di sovranità e, per quanto ci riguarda, dei poteri conoscitivi (che costituiscono uno dei profili della sovranità medesima).
2. I limiti territoriali dei poteri conoscitivi
Se si tiene conto di quanto si è detto non dovrebbe sorprendere il fatto che per lungo tempo il diritto internazionale si è attenuto al principio che andava sotto il nome di revenue rule enunciato da Lord Mansfield nella decisione del caso Holman vs. Johnson (1775) secondo il quale «no other state takes notice of the revenue laws of another».
Sebbene la dottrina abbia sempre escluso che la revenue rule avesse il valore di norma generale dell’ordinamento internazionale, tuttavia essa era posta comunque a fondamento dell’idea di una valenza “strettamente territoriale” delle norme tributarie.
Questa nozione poteva essere criticata sotto vari profili, dei quali non è necessario dare qui conto.
Possiamo limitarci a rilevare che – come si è detto fin dall’inizio – le norme tributarie sono di diverso genere e che appare difficile predicare che i “limiti” territoriali delle norme impositive in senso stretto (ossia di quelle che istituiscono e regolano i singoli tributi) siano le stesse di quelle che attengono al controllo, alla formazione degli atti di accertamento, alla riscossione e, per quanto ci riguarda direttamente, ai poteri conoscitivi.
Escludendo, quindi, di poter individuare un unico principio di diritto internazionale valido per tutti i profili del diritto tributario, dobbiamo dire che se vi è un aspetto relativamente al quale la tesi dell’efficacia “territoriale” della legge tributaria poteva ritenersi, nei limiti che diremo, sufficientemente fondata, questa è propria quella relativa ai poteri conoscitivi.
Come abbiamo detto, infatti, i poteri conoscitivi si risolvono nell’attribuzione della possibilità, da parte dei pubblici poteri, di comprimere la sfera delle libertà individuali.
E abbiamo anche detto che, ad esempio, nella nostra Costituzione l’esistenza di tale potere è data per presupposta (tanto è vero che essa è oggetto delle previsioni di cui all’art. 14 Cost.).
Tuttavia, è evidente che tale presupposizione è la conseguenza – come pure abbiamo detto – dell’interesse ordinamentale al corretto adempimento del dovere tributario.
Vi è, però, che, almeno in prima battuta, tale interesse è, più propriamente, quello della collettività di cui ciascun individuo è membro all’adempimento del dovere tributario verso la collettività medesima. Detto diversamente, e almeno in prima battuta, si è portati a negare che le libertà garantite da un certo ordinamento e nell’ambito di una determinata collettività possano essere compresse dall’esercizio di poteri conoscitivi esercitati in vista dell’interesse all’adempimento del dovere tributario eventualmente esistente nei confronti di altro ordinamento e altra collettività. E questo sia se il soggetto munito del potere fosse un organo dello Stato in cui è inserito l’individuo la cui libertà viene compressa, sia, e a maggior ragione, se il potere in questo fosse esercitato dall’organo di altro Stato.
Da ciò deriva che, per lungo tempo, si è sostenuto – con sufficiente fondamento – che: a) nessun “agente” di uno Stato potesse legittimamente esercitare i propri poteri nel territorio di altro Stato: più propriamente l’esercizio di simili poteri all’esteri è stato considerato un illecito internazionale dello Stato estero e dei suoi agenti; b) lo Stato non potesse e addirittura non dovesse prestare la propria assistenza nell’esercizio dei poteri conoscitivi a favore di uno Stato estero: altrimenti detto, i funzionari di uno Stato non potevano esercitare i poteri conoscitivi dei quali sono muniti nell’interesse di un altro Stato (essendo tali poteri funzionali solo all’attuazione, come abbiamo detto, dell’interesse dello Stato al controllo del corretto adempimento del dovere tributario nei “propri confronti”).
Questa concezione dominante è stata, dapprima, erosa dalla sottoscrizione delle convenzioni contro le doppie imposizioni. Il primo modello di convenzione, elaborato dall’OCSE nel 1963 conteneva una clausola (l’art. 26) che regolava lo scambio di informazioni fra gli Stati che erano parti della convenzione.
Questo “scambio” era strettamente funzionale alla corretta applicazione della convenzione e si giustificava, in particolare, in nome del principio di reciprocità: in tanto uno Stato si rendeva disponibile a mettere a disposizione dell’altro le informazioni acquisite mediante l’esercizio dei propri poteri in quanto, a sua volta, l’altro Stato si obbligava a fare altrettanto. Peraltro, lo scambio di informazioni era circoscritto a quelle comunque già acquisite nell’interesse proprio.
Da quell’embrionale limitazione della revenue rule si è avviato un processo sempre più accentuato. In particolare, con l’avvento della globalizzazione e i la presa d’atto dell’esistenza di forme di pianificazione fiscale che risultano idonee a ledere l’integrità dei sistemi fiscali di molteplici Stati, anzi della generalità degli Stati medesimi, si è giunti ad ampliare in modo assai notevole la disciplina dello scambio di informazioni. Tanto che, oggi, non è dato più affermare né che i poteri conoscitivi di ciascuno Stato sono serventi rispetto alla realizzazione del solo interesse proprio alla verifica del corretto adempimento del dovere fiscale “interno”, né che sia illegittimo l’esercizio di poteri conoscitivi di un agente di uno Stato nel territorio di un altro.
Non si deve credere, tuttavia, che l’originaria nozione di territorialità, per ciò che concerne i poteri conoscitivi, sia del tutto scomparsa.
Invero, ancora adesso, la legittimità dell’esercizio di poteri conoscitivi all’estero e l’esercizio di poteri conoscitivi nell’interesse di altro Stato mantengono sempre una base nel diritto internazionale pattizio. Al di fuori di accordi fra gli Stati l’esercizio di poteri conoscitivi nel territorio di altro Stato resta pur sempre illegittimo.
Tuttavia, gli accordi fra Stati si sono sempre più intensificati e la maggior parte di essi è al centro di una rete di accordi che, nel loro complesso, rendono sempre più frequenti i casi in cui l’esercizio dei poteri conoscitivi nel territorio di altro Stato – con le modalità previste dai trattati, hanno una specifica base giuridica.
A ciò si deve aggiungere che, tanto per effetto di questa diffusione di regole intese a legittimare lo scambio di informazioni, quanto in conseguenza della modifica dell’approccio al problema del quale si è detto in precedenza, sono si è molto modificata anche l’interpretazione delle regole contenute nei trattati.
Un caso esemplare è quello della regola della “prevedibile pertinenza” (o “forseable relevance”) delle informazioni richieste e oggetto di scambio.
Tale regola è diretta a evitare che uno Stato richieda informazioni con uno scopo meramente esplorativo, cioè non per la ricerca della prova di una condotta specifica di un soggetto determinato avente finalità ed effetti “evasivi” (degli obblighi tributari), ma per la ricerca dell’evasione in sé, ossia per verificare in modo del tutto generico se taluni soggetti si siano resi colpevoli di un fatto evasivo (ancora da individuare). Lo scopo è, cioè, quello di evitare ciò che si definisce, con una colorita metafora, “fishing expeditions” espressione che potrebbe essere tradotta come “pesca a strascico”.
Un approccio rigoroso – e che volesse dare preminenza all’interesse dello Stato cui è diretta la richiesta a limitare lo scambio di informazioni al minimo necessario – condurrebbe a porre a carico dello Stato che avanza la richiesta l’obbligo di giustificarla al fine di evidenziarne la “prevedibile pertinenza”.
In temi recenti, tuttavia, si va sempre più affermando l’idea che la forseable relevance è presunta e che lo Stato destinatario della richiesta non possa chiedere di giustificarne l’esistenza nemmeno ove abbia il convincimento che, nel caso di specie, tale prevedibile pertinenza sia assente. Perché un’informazione possa essere rifiutata occorre che l’assenza della forseable relevance costituisca un dato evidente.