LEZIONI SUI POTERI CONOSCITIVI NEL DIRITTO TRIBUTARIO – Lezione 7
Tempo di Lettura: 11 minutiAccessi, ispezioni e verifiche
1. I poteri d’ordinanza reali
L’attività conoscitiva che assume maggiore rilevanza è quella che è nota più comunemente con il nome di potere di accesso e che, in effetti, comprende anche il potere di ispezione e di verifica.
Tale rilevanza sussiste sia sotto il profilo della sua interferenza con diritti costituzionalmente riconosciuti (secondo una prospettiva alla quale abbiamo fatto cenno e sulla quale dovremo ritornare), sia sotto il profilo della (conseguente) maggiore articolazione della sua disciplina.
Dal punto di vista dell’inquadramento giuridico, si tratta di un potere d’ordinanza reale. Infatti, il soggetto passivo del potere – ossia colui nei cui confronti l’ordine è diretto e la cui situazione giuridica soggettiva viene conseguentemente modificata – è identificato solo in via mediata, ossia in dipendenza della sua relazione con l’oggetto materiale – la res, in termini generali la “cosa” – verso la quale è diretta l’attività che l’Agenzia e o la Guardia di Finanza intendono svolgere.
Conseguentemente, l’ordine emesso è costitutivo di una situazione soggettiva passiva avente come contenuto la mera tolleranza dell’ingerenza altrui nella propria sfera giuridica, ovvero nella indisturbata disponibilità e godimento degli oggetti materiali nei cui confronti si indirizza il potere. Secondo una diversa, ma sostanzialmente equivalente, terminologia, tali ordini sono costitutivi di una situazione giuridica soggettiva di pati.
2. Esecutività ed esecutorietà degli ordini
Come tutti gli ordini – e, in genere, come gli atti amministrativi in generale – quelli dei quali ci accingiamo a trattare sono esecutivi. Essi, infatti, producono immediatamente gli effetti loro propri. Nel caso in esame, quindi, l’emanazione dell’ordine è immediatamente costitutivo della situazione giuridica soggettiva di pati nel senso anzi detto.
Secondo quanto si è riferito in precedenza, la dottrina tradizionale ritiene che gli ordini siano in genere anche esecutori, nel senso che l’effetto costituito dall’ordine può essere realizzato anche, in via diretta, dall’autore dell’ordine pure in contrasto con la volontà del soggetto passivo dello stesso.
Come avremo modo di rilevare, questa affermazione non è vera in assoluto. Nel diritto tributario – ma, crediamo, in generale, là dove l’ordine abbia come contenuto un facere infungibile – esistono ordini esecutivi, ma non esecutori.
Questo non è, però, il caso degli ordini di accesso, ispezione e verifica, i quali sono effettivamente, oltre che esecutivi, anche esecutori e i loro effetti possono essere realizzati anche contro la volontà dei relativi destinatari.
3. Nozione di accesso, ispezione e verifica
In primo luogo, occorre specificare il contenuto di tali ordini che, correttamente, sono individuati con tre denominazioni diverse che riflettono la loro effettiva diversità ancorchè essi siano comunque strumentali allo svolgimento di attività che, come ribadiremo, sono intrinsecamente correlate
L’ordine di accesso consiste nella costituzione della situazione giuridica soggettiva passiva avente come contenuto la tolleranza all’altrui ingresso in determinati luoghi.
L’attività di ispezione non è definita direttamente dalla disciplina tributaria, ma può desumersi dal significato che il medesimo termine assume in altre branche dell’ordinamento e, in particolare, nell’art. 118 c.p.c. (che definisce l’ispezione giudiziale) ai sensi del quale l’ispezione consiste nella diretta e immediata osservazione di persone (ispezione personale) o cose (ispezione reale). Conseguentemente, l’effetto proprio dell’ordine di ispezione è quello di costituire una situazione giuridica soggettiva passiva avente come contenuto la tolleranza all’altrui osservazione della propria persona e di cose che sono nella sua disponibilità.
Infine, la verifica consiste più semplicemente nella possibilità di determinare la coerenza della realtà materiale (p.es. la consistenza del magazzino) o di taluni documenti (p.es. le fatture emesse o ricevute) con il contenuto di altri documenti (le dichiarazioni, la contabilità ecc.).
Questa definizione dell’oggetto delle attività prima indicate – e, quindi, degli ordini che le rendono possibili – chiarisce anche perché esse, sebbene concettualmente e materialmente distinte, sono indicate unitariamente nella rubrica dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973.
Invero, le prime due sono necessariamente coordinate in funzione strumentale rispetto alla terza. L’accesso non è fine a sé stesso (tanto è vero che il già citato art. 118 c.p.c. non lo nomina neppure come autonoma attività del giudice pur essendo pacifico che il potere di ispezione previsto da tale disposizione comprende anche quello di accesso) e non lo è neppure l’ispezione: entrambe sono funzionali ai controlli che vengono effettuati durante la fase di verifica.
Non è un caso che molto spesso il complesso di attività in questione prenda il nome di verifica tout court e i soggetti che l’eseguono quello di “verificatori”. Si tratta di una metonimia: la parte viene identificata con il tutto. Ma se l’impiego di queste espressioni non è del tutto corretto da un punto di vista tecnico, esso rende bene l’idea della connessione funzionale.
Si deve, tuttavia, avere ben chiaro che la predetta connessione funzionale riguarda le attività le quali sono rese però possibili dagli ordini che stanno a monte delle stesse. E sebbene i termini “accesso”, “ispezione” e “verifica” presentino un’ambiguità di fondo – potendo essere utilizzati per indicare sia l’ordine, sia l’attività – le relative nozioni devono essere tenute distinte.
4. Presupposti del potere di accesso
Gli ordini personali, come vedremo, non hanno specifici presupposti legittimanti (rectius specifiche fattispecie costitutive). La titolarità del potere in astratto corrisponde anche alla titolarità del potere in concreto: l’Agenzia o la Guardia di Finanza lo possono esercitare legittimamente per il solo fatto di esserne i titolari.
Viceversa, per i poteri ordinatori reali di accesso e di verifica il legittimo esercizio degli stessi è subordinato alla ricorrenza di determinate condizioni legittimanti (che costituiscono altrettante fattispecie costitutive del potere concreto).
Proprio perché si tratta di ordini reali, i presupposti legittimanti di cui si è detto sono diversificati in ragione del relativo oggetto.
Partendo dal potere di ordinare l’accesso, occorre distinguere, quindi, a secondo dal tipo di locali, fra: (a) i locali destinati all’attività d’impresa o attività professionale o artistica; (b) i locali destinati promiscuamente al domicilio del relativo titolare e all’esercizio delle attività di cui alla lettera (a); (c) i locali costituenti domicilio del soggetto passivo dell’ordine.
Quanto ai primi, si deve evidenziare che l’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 non prevede espressamente alcun presupposto specifico. Ma tale norma deve essere oggi integrata con l’art. 12, primo comma dello Stato dei diritti del contribuente il quale stabilisce che gli accessi «devono essere effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo». Si tratta, com’è evidente, di un mero richiamo ai principi di proporzionalità dell’azione amministrativa, ma che – pur presentando indubbi problemi di effettiva sindacabilità – concorre a circoscrivere, sia pur con la debita elasticità, i presupposti dell’accesso.
Si deve aggiungere, poi, che, nel caso di locali destinati all’esercizio dell’attività professionale, presupposto del legittimo esercizio dell’accesso è la presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.
Anche per i locali destinati ad uso promiscuo l’art. 52 cit. non indica specificamente alcun presupposto. Tuttavia, esso espressamente sancisce che è necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica. Prescindendo, per il momento, dalla natura di tale autorizzazione non si può fare a meno di ritenere che – in ossequio a una lettura che voglia armonizzare adeguatamente i dati normativi e il rapporto fra tale disciplina e quella degli accessi nei luoghi esclusivamente destinati all’esercizio dell’attività, da un lato, e degli accessi nei luoghi esclusivamente destinati ad abitazione (di cui diremo fra breve), dall’altro – l’autorizzazione medesima presupponga una verifica della reale sussistenza di quelle «esigenze effettive d’indagine» che devono essere riscontrate anche per gli accessi nei luoghi destinati soltanto all’esercizio dell’attività d’impresa o professionale.
E deve trattarsi di esigenze di un certo (anche se non definito esattamente) livello di serietà oltre che di effettività, pur non dovendo assumere la consistenza dell’accertata esistenza di «gravi indizi di violazioni» che invece è richiesta per l’accesso nei locali destinati esclusivamente ad abitazione.
È evidente, cioè, che l’aver stabilito la propria abitazione promiscuamente al luogo di esercizio dell’attività implica una parziale rinuncia alla pienezza della tutela della libertà domiciliare, ma non al punto di rendere del tutto inesistente la garanzia costituzionale della libertà medesima.
Infine, per quanto riguarda i luoghi costituenti esclusivamente abitazione del destinatario dell’ordine, questo può essere emesso solo in presenza dei già citati «gravi indizi di violazioni».
Merita solo ricordare che, secondo una giurisprudenza sufficientemente pacifica, la nozione di domicilio deve essere estesa non solo alla casa di abitazione ma anche a tutti i luoghi che ne costituiscono una proiezione, quale, ad esempio, l’autovettura privata del contribuente che ha, quindi, la stessa tutela sopramenzionata.
5. I presupposti per l’ispezione
Discorso in parte analogo riguarda l’ispezione delle cose e delle persone (che si concretizza in una perquisizione).
L’art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 si limita a contenere una disciplina espressa in termini negativi, ossia circoscritta a individuare i soli casi in cui è necessaria un’autorizzazione della procura della Repubblica. Il che lascia intendere che per tutti gli oggetti diversi da quelli ivi menzionati non occorra alcun presupposto. Anche rispetto a tale assetto, si deve però ritenere che la disciplina in questione debba essere integrata dall’art. 12 dello Statuto del contribuente il quale, infatti, subordina alle effettive esigenze di indagine e controllo anche l’attività di ispezione.
Questo vale, come si è detto, per le ipotesi diverse da quelle in cui l’art. 52, comma 3, prevede l’autorizzazione. Là dove, invece, l’autorizzazione è richiesta ai sensi di tale norma, si pone il problema di comprendere se essa sia, o meno, subordinata alla sussistenza di specifici presupposti.
L’art. 52, comma 3, non lo specifica, ma, al riguardo, non si può fare a meno di ritenere che, poiché l’autorizzazione è correttamente richiesta anche per il compimento di atti che interferiscono e comprimono libertà personali costituzionalmente tutelate con il medesimo rigore che presiede alla tutela della libertà domiciliare, i presupposti nei due casi non possono essere diversi. In altri termini, secondo l’interpretazione qui proposta, anche per le perquisizioni personali e per l’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli ecc., è richiesta un’autorizzazione (del procuratore della Repubblica) fondata, al pari di quanto previsto dall’art. 52, comma 2, per l’accesso al domicilio, su gravi indizi di violazioni.
L’art. 52, comma 3, prevede, però, che l’autorizzazione del procuratore della Repubblica sia necessaria anche per l’ispezione di documenti per i quali sia opposto il segreto professionale.
In questo caso, non venendo in rilievo rispetto al segreto professionale, come diremo meglio fra breve, la medesima tutela costituzionale, l’autorizzazione del procuratore della Repubblica non è subordinata ai medesimi presupposti, bensì, verosimilmente, alla verifica della effettiva sussistenza di ragioni adeguate per il superamento del segreto nel senso che specificheremo fra breve.
6. L’autorizzazione
Come abbiamo detto più volte, l’art. 52 menziona in più punti che i poteri ordinatori devono essere esercitati previa autorizzazione.
In particolare: A) l’accesso in locali destinati esclusivamente all’attività d’impresa o professionale deve essere autorizzata dal capo ufficio; B) l’accesso presso i locali promiscuamente utilizzati come abitazione e come luogo di esercizio dell’attività, l’accesso presso i locali utilizzati esclusivamente come abitazione nonché l’ispezione di casseforti, mobili, ripostigli ecc., nonché l’ispezione dei documenti per i quali sia stato opposto il segreto professionale devono essere autorizzati dalla procura della Repubblica; C) l’accesso presso gli operatori finanziari devono essere autorizzati dal Direttore centrale dell’accertamento o dal Direttore regionale (per l’Agenzia) o dal Comandante regionale (per la Guardia di Finanza).
La menzione di un atto denominato autorizzazione può indurre in equivoco.
L’autorizzazione, infatti, come atto amministrativo è stato studiato – assai diffusamente – nei casi in cui esso incide sull’esercizio di diritti (o delle relative facoltà) da parte di privati (i cui diritti o facoltà sono, per l’appunto, condizionati da un intervento autorizzativo della P.A.).
Nelle ipotesi sub A e C, tuttavia, l’autorizzazione è un atto ben diverso che interviene fra soggetti appartenenti alla medesima amministrazione (o al medesimo Corpo) e collocati in una relazione gerarchica.
Sembra, quindi, più corretto ritenere che l’autorizzazione abbia un valore giuridico del tutto diverso. Essa non dovrebbe potersi considerare quale atto che rimuove un ostacolo all’emanazione di un atto comunque di competenza del soggetto sotto-ordinato da parte del superiore. Piuttosto, si dovrebbe ritenere che tale autorizzazione sia, invero, abbia un duplice valore: da un lato, essa è, nei rapporti fra Agenzia e privati destinatari del potere ordinario, l’ordine medesimo emesso dal soggetto che è l’effettivo titolare del relativo potere e, al tempo stesso, è, nei rapporti interni all’Agenzia o alla Guardia di Finanza, atto di delega, da parte del superiore ai soggetti sotto-ordinati, all’esecuzione coattiva dell’ordine medesimo. In questa prospettiva, l’effetto reale proprio dell’ordine sarebbe riconducibile all’autorizzazione medesima.
La medesima duplice natura presentano, poi, anche le autorizzazioni del procuratore della Repubblica di cui alla precedente lett. B). In questo caso, peraltro, tale ricostruzione ha un fondamento ancora più solido.
Gli art. 13, 14, 15 Cost. evidenziano chiaramente che il potere di ordinare la compressione delle libertà tutelate da tali disposizioni è esclusiva competenza della autorità giudiziaria (in virtù della ricordata riserva di giurisdizione). Cosicché, in senso proprio, il procuratore della Repubblica non autorizza, ma dispone (o, meglio, ordina) l’accesso, la perquisizione ecc. E nell’emettere tale ordine altresì delega l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza a dare esecuzione all’ordine medesimo. Conseguentemente, la c.d. autorizzazione assomma in sé, come già si è visto per l’autorizzazione del capo dell’ufficio o del Diretto regionale, la duplice natura di ordine (nei confronti del privato) e di delega (nei rapporti con i “verificatori”).
7. Precisazioni in ordine ai “pieghi sigillati”
Come abbiamo già rilevato in precedenza, l’autorizzazione del procuratore della Repubblica relativamente agli ordini di ispezione riguardanti i “pieghi sigillati” è richiesta in ossequio all’art. 15 Cost., ossia al fine di rispettare la riserva di giurisdizione prevista per la compressione del diritto inviolabile alla segretezza e libertà di corrispondenza.
Ci siamo soffermati in precedenza sulla configurazione di tale libertà e, quindi, nel rinviare a quanto si è già osservato circa il fatto che tale compressione, ove si verifichi, coinvolge necessariamente tutti i soggetti che sono parti della relazione epistolare, dobbiamo ribadire che, dal nostro punto di vista, ai fini di poter legittimamente ordinare l’ispezione della corrispondenza:
- non ha alcun rilievo la distinzione fra corrispondenza “aperta” e corrispondenza “chiusa”, non venendo meno la tutela della segretezza con l’apertura della stessa;
- l’irrilevanza di tale distinzione è ancora maggiore nel caso della corrispondenza a mezzo posta elettronica, giacché la connotazione simbolica che identifica come “aperto” o “chiuso” il messaggio di posta elettronica non ha nulla a che vedere con l’avvenuta apprensione del contenuto del messaggio; altrimenti detto anche il messaggio contraddistinto, a livello di programma elettronico, come “chiuso” può ben essere stato già effettivamente letto e questo vale, ovviamente e a priori, per il caso del mittente;
- l’autorizzazione del procuratore della Repubblica resta comunque necessaria anche quando il soggetto verificato offra spontaneamente la posta all’attività ispettiva in quanto, posto che la segretezza e libertà di corrispondenza tutela, allo stesso tempo, il mittente e il destinatario, nessuno di questi due soggetti può disporre della tutela costituzionalmente riconosciuta, perché, altrimenti disporrebbe di un diritto altrui.
8. Precisazioni relativamente al segreto professionale
Il segreto professionale presenta caratteri del tutto diversi rispetto a quelli propri della segretezza della corrispondenza.
Per rendersene conto è necessario soffermarsi, innanzi tutto, sulla diversa “struttura” del segreto medesimo.
In effetti, la previsione costituzionale del segreto della corrispondenza si risolve, almeno essenzialmente, in un vincolo a carico dei poteri pubblici la cui attività d’indagine deve arrestarsi dinanzi alle aree coperte dalla relativa tutela: l’esistenza del segreto corrisponde, in altri termini, a un divieto di conoscenza che può essere rimosso solo dall’intervento dell’autorità giudiziaria.
La previsione legislativa del segreto professionale – che emerge dalle disposizioni penali che puniscono la violazione del segreto da parte del professionista – corrisponde, invece, a un divieto di divulgazione delle informazioni di cui il professionista dispone. È il professionista (e non l’autorità pubblica) il destinatario del vincolo.
Da un diverso, ma convergente, punto di vista si potrebbe dire che, mentre le informazioni contenute nella corrispondenza sono oggettivamente non conoscibili dalla pubblica amministrazione, viceversa tale oggettiva inconoscibilità non sussiste per quelle di cui il professionista dispone in quanto esse non sono di per sé – almeno in linea generale e, quindi, fatto salvo quanto osserveremo relativamente alla corrispondenza – coperte da un segreto (inteso, come si è detto, quale limite alla conoscenza) direttamente operante nei confronti dell’autorità
Deriva da ciò che:
- nel caso della segretezza della corrispondenza, la legge interviene per individuare i casi e i modi in cui i pubblici poteri possono accedere a informazioni la cui conoscenza è, altrimenti, agli stessi inibita dalla Costituzione;
- nel caso del segreto professionale, l’intervento legislativo non è diretto a rimuovere un vincolo a carico dei pubblici poteri (i quali ben potrebbero apprendere le medesime informazioni da una diversa fonte), bensì ad assolvere il professionista dall’osservanza di un divieto a suo carico
Non a caso, a differenza del segreto della corrispondenza, il segreto professionale inibisce l’esercizio dei poteri d’indagine solo ove venga “eccepito” dal professionista, restando perfettamente conoscibili dalla pubblica amministrazione le informazioni acquisite in assenza della predetta “eccezione”.
Conseguentemente, l’autorizzazione prevista nel caso in cui venga eccepito il segreto professionale ha un effetto legittimante consistente nel consentire la divulgazione da parte del professionista e a favore della pubblica amministrazione di informazioni che egli dovrebbe tenere riservate.
Partendo da queste considerazioni si può pervenire alla conclusione – sulla quale non vi è concordia in dottrina e in giurisprudenza – per cui, a fronte dell’eccezione del segreto professionale, la concessione dell’autorizzazione è subordinata alla verifica dell’insussistenza del segreto medesimo.
Questa tesi, pur in presenza di un dato normativo non univoco, trova una conferma (a) in un argomento di tipo storico, relativo alla prassi che il legislatore sembra aver voluto istituzionalizzare; (b) nel fatto che essa presenta il pregio di rendere maggiormente omogenea l’eccezione del segreto nell’ambito delle indagini tributarie con quella operante in sede di indagini penali; (c) nella circostanza che tale tesi sembra maggiormente idonea a spiegare l’esclusione (espressamente prevista dall’art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972) del regime dell’autorizzazione nei casi in cui il professionista eccepisca il segreto difensivo ai sensi dell’art. 103 c.p.c..
In pratica, la disposizione contenuta nel citato terzo comma dell’art. 52 starebbe a indicare che il segreto professionale è comunque insuperabile se validamente eccepito e che la validità dell’eccezione (a) sussiste in ogni caso per il segreto “difensivo” e (b) è invece accertata dall’autorità giudiziaria, quale presupposto per il rilascio dell’autorizzazione, per il segreto professionale diverso da quello difensivo.