Caparra (e Multa) Penitenziale: Indicazioni importanti (e preoccupanti) dalla cassazione (Cass. 27129-19)

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Commento a Cass. civ., Sez. trib., ord. 23 ottobre 2019, n. 27129


1. I punti di interesse della pronuncia

L’ordinanza 23 ottobre 2019, n. 27129 merita senz’altro di essere segnalata sia perché affronta un tema sul quale non consta l’esistenza di precedenti arresti della giurisprudenza tributaria, sia perché fornisce alcune indicazioni la cui importanza va ben al di là della questione specificamente affrontata.

Il tema è quello della “caparra penitenziale” che è pattuizione contrattuale meno frequente nella pratica rispetto alle più note “caparra confirmatoria” e “clausola penale” ancorchè tutte siano trattate nella sezione II del Capo del codice civile intitolato “degli effetti del contratto”.

La Cassazione formula due affermazioni relativamente alla somma versata (e trattenuta) a titolo di caparra penitenziale:

  1. in primo luogo, esclude che la caparra penitenziale abbia natura risarcitoria (dovendosi negare la possibilità di attribuire «alla caparra penitenziale una funzione risarcitoria che le è estranea, non potendosi al riguardo convenire con quanto invece esposto da Cass. sez. 5, 31 maggio 2016, n. 11307»). Questa conclusione sembrerebbe derivare solo dalla considerazione della «chiara differenza sul piano testuale tra caparra penitenziale, disciplinata dall’art. 1386 c.c,. e clausola penale, di cui all’art. 1382 c.c., anche in relazione alla caparra confirmatoria di cui all’art. 1385 c.c.»;
  2. in secondo luogo (ed è questo il punto più interessante), la Corte lascia intendere che, se l’oggetto del giudizio avesse potuto estendersi oltre la motivazione dell’avviso di accertamento, non sarebbe stato improprio prendere in esame la possibilità che «la tassazione della plusvalenza possa trarre titolo nella diversa previsione di cui all’art. 67 TUIR, comma 1, lett. l), per quanto qui rileva, nella parte in cui assoggetta a tassazione i redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di permettere (nella fattispecie in esame il recesso della promittente acquirente dalla stipula del definitivo)». Insomma, a parte qualche imprecisione terminologica – giacché l’uso del termine “plusvalenza” con riferimento ai redditi di cui all’art. 67, comma 1, lett. l) è ovviamente del tutto improprio –, la Corte sembra chiaramente qualificare la caparra penitenziale quale corrispettivo dell’assunzione di un’obbligazione di permettere.

Queste due affermazioni meritano alcune considerazioni.

2. La natura indennitaria della caparra e della multa penitenziali

L’affermazione della differenza della caparra penitenziale (e della multa penitenziale di cui all’art. 1373, comma 3, c.c.) rispetto alla clausola penale e alla caparra confirmatoria è certamente fondata essendo pacifico che le ultime due clausole sono correlate all’inadempimento. Viceversa, quando opera la clausola penitenziale non vi è alcun inadempimento, ma solo il recesso (legittimamente) esercitato da una delle parti contrattuali.

Questo per quel che attiene ai “presupposti” applicativi delle due discipline.

Tuttavia, ferma restando tale fondamentale differenza di presupposti, ci si deve interrogare se davvero la “funzione” della somma data dalla parte recedente e trattenuta dall’altra parte (nel caso della caparra penitenziale) sia nettamente diversa da quella della somma data dalla parte inadempiente e trattenuta dal c.d. contraente “fedele” (nel caso della caparra confirmatoria).

La natura di questo interrogativo può essere meglio precisata.

Premesso, infatti, che il collegamento fra il diritto a trattenere la caparra confirmatoria e l’inadempimento giustifica la conclusione per cui la somma ricevuta dal contraente fedele ha natura risarcitoria per la congiunta presenza delle seguenti caratteristiche (i) l’essere diretta a procurare un ristoro del sacrificio patrimoniale subìto e (ii) l’essere tale sacrificio la conseguenza di un illecito (ossia l’inadempimento), ci si deve chiedere se l’esclusione della natura risarcitoria, nel caso della caparra penitenziale, derivi dalla mancanza anche del primo elemento (ossia dal suo non essere funzionale alla reintegrazione patrimoniale) o solo dall’assenza del secondo elemento (cioè la mancanza dell’illecito).

A mio avviso, la questione deve essere risolta qualificando, sotto il profilo funzionale e causale, la caparra e la multa penitenziali quali “indennità”, ossia quali prestazioni dirette reintegrare il patrimonio. Le indennità non sono del tutto diverse dai risarcimenti, perché fra le due prestazioni esiste un rapporto di genere a specie essendo i risarcimenti caratterizzati dalla medesima funzione propria delle indennità in generale (ossia la finalità di reintegrare il patrimonio) e, in più, da un’ulteriore caratteristica specifica (ossia il fatto che la decurtazione patrimoniale è conseguenza di un fatto illecito).

Ma è solo questo secondo elemento, presente nella caparra confirmatoria (ove sorga il diritto per la parte fedele di trattenerla), che è assente rispetto alla caparra penitenziale; per entrambe le prestazioni sussiste, invece, la comune funzione reintegratoria di un pregiudizio patrimoniale.

Esistono molti dati che confortano questa conclusione:

  • innanzi tutto, si deve segnalare che il codice civile disciplina le conseguenze patrimoniali dell’esercizio del diritto di recesso ad nutum, oltre che, in generale, all’art. 1373, comma 3, c.c. (dedicato alla multa penitenziale) e all’art. 1386 (relativo alla caparra penitenziale), anche in alcune disposizioni di settore e, in particolare, agli artt. 1671 e 1725 c.c. (disciplinanti, rispettivamente, il recesso dell’appaltatore e la c.d. revoca del mandato). In queste due specifiche fattispecie, le conseguenze del recesso per il recedente sono individuate, per l’appunto, nell’obbligo di tener indenne la controparte. Questa disciplina, in altri termini, attesta che il recesso (anche legittimo) può determinare un sacrificio patrimoniale per chi lo subisce e, conseguentemente, far sorgere un obbligo di reintegrazione del patrimonio medesimo da parte di chi, sia pure legittimamente, esercita la facoltà di recesso;
  • tale qualificazione trova preciso riscontro nella giurisprudenza la quale ha, anche recentemente, affermato che ««l’istituto in dottrina denominato “multa penitenziale”, e nel diritto positivo disciplinato dall’art. 1373 c.c., comma 3, non diversamente dalla “caparra penitenziale” di cui all’art. 1386 c.c., (relativo ai casi in cui il versamento avviene anticipatamente, prevedendosi la ritenzione o la restituzione del doppio a seconda della parte successivamente recedente), assolve alla sola finalità di indennizzare la controparte nell’ipotesi di esercizio dello ius poenitendi» [ Cass. civ., Sez. II, 18 marzo 2018 n. 6558];
  • nell’esperienza applicativa sono sempre più frequenti i casi in cui i giudici applicano alla caparra o alla multa penitenziale la disciplina della “riduzione” di cui all’art. 1384 c.c. la quale presuppone, per sua natura, la “proporzionalità” della somma dovuta dal recedente alla decurtazione patrimoniale effettivamente subita dalla controparte [ Coll. Arbitrale (Milano), 29.3.2006, in Riv. arbitrato, 2006, 385-387 e Tribunale Milano, sez. V, sent. 14 dicembre 2018, n. 12616];
  • il medesimo orientamento appare recepito dalla stessa amministrazione finanziaria la quale, nella Circolare n. 187 del 21 novembre 1987, ha ritenuto che «Qualora non vi sia un acconto di prezzo ma si abbia il versamento di una caparra penitenziale, questa, non costituendo corrispettivo ma avendo solamente carattere risarcitorio, è fuori dal campo di applicazione dell’Iva».

Mi sembra, quindi, di poter concludere che la disomogeneità giustamente riscontrata dalla Cassazione fra caparra confirmatoria e caparra penitenziale sia idonea solo ad escludere la natura risarcitoria (in senso stretto) della seconda, ma non la sua funzione indennitaria.

Ovviamente, questo inquadramento dovrebbe condurre a interrogarsi, ulteriormente, circa la corretta interpretazione dell’art. 6, comma 2, del t.u.i.r., ossia se la disciplina ivi contenuta delle «indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento dei di danni» sia applicabile solo ai risarcimenti in senso stretto, oppure (come lascerebbe presumere il riferimento testuale alle “indennità”) anche alle somme aventi funzione genericamente reintegratoria (del lucro cessante).

3. Estraneità della caparra e della multa penitenziali ai corrispettivi per obbligazioni di “permettere”

L’aver attribuito natura indennitaria alla caparra e alla multa penitenziali consente di escludere, quale diretta conseguenza, che le stesse rappresentino il corrispettivo di un’obbligazione di permettere diversamente da quanto sembra ritenere la Corte Suprema di Cassazione.

L’accenno che i giudici di legittimità fanno all’art. 67, comma 1, lett. l) del t.u.i.r. si inserisce, peraltro, in una più generale e diffusa tendenza a estendere i confini delle obbligazioni di fare, non fare o permettere che, a mio avviso, ha un rilievo sistematico molto maggiore rispetto a quello dell’esatta delimitazione della nozione di “indennità risarcitorie” rilevanti ai fini dell’art. 6, comma 2, del t.u.i.r.

È sufficiente rilevare, a tale fine, che l’esatta definizione della fattispecie delle obbligazioni di fare, non fare o permettere determina conseguenze pratiche e teoriche non solo (e, direi, non tanto) sul fronte dell’imposizione diretta, ma anche e soprattutto su quello dell’i.v.a.

A mio parere, la tendenza espansiva di cui si è detto è fortemente criticabile, nella misura in cui non distingue le obbligazioni aventi, come contenuto, un “disporre” (ossia operare una manifestazione di volontà) da quelle il cui contenuto sia, per l’appunto, un fare, un non fare o un permettere.

Ovviamente, questa critica meriterebbe di essere ulteriormente sviluppata, ma questa non è certo la sede per condurre tale approfondimento.

Invero, la necessità di distinguere fra “obbligazioni di disporre” e “obbligazioni di fare, non fare o permettere” sorge là dove, comunque, ci si trovi dinanzi ad assetti onerosi o corrispettivi in cui l’obbligazione di pagare una somma di denaro è il corrispettivo di un’altra obbligazione (di cui occorre determinare il contenuto).

Poiché, come abbiamo visto, la caparra e la multa penitenziali non hanno funzione corrispettiva dell’assunzione di un’obbligazione (comunque qualificata), bensì funzione indennitaria, il problema non si pone effettivamente nel caso di specie.

Ai nostri fini è sufficiente evidenziare come la soluzione cui allude la Corte Suprema di Cassazione è contraddetta, almeno per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (oltre che dall’amministrazione finanziaria nella già citata Circolare 187 del 1987).

In particolare, la Corte di Giustizia ha affrontato il caso della caparra penitenziale nella sentenza CGUE 18.7.2007, Société Thermale d’Eugénie-les-Bains, C-277/05 nella quale è stato affermato che «le somme versate a titolo di caparra nell’ambito di contratti relativi a prestazioni alberghiere soggette ad IVA devono essere considerate, qualora il cliente si avvalga della facoltà di disdetta consentitagli e le somme stesse siano trattenute dall’albergatore, quali indennità forfetarie di recesso versate ai fini del risarcimento del danno subìto per effetto della rinuncia del cliente, senza che sussista un nesso diretto con un qualsivoglia servizio reso a titolo oneroso, ragion per cui tali somme non sono soggette all’IVA» [che si trattasse di una caparra penitenziale è confermato sia dal fatto che la Corte afferma che le somme erano versate a fronte della «facoltà alla parte che l’ha versata di sottrarsi ai propri obblighi contrattuali»; sia dal fatto che il caso riguardava l’ordinamento francese il cui «codice civile disciplina soltanto il patto che nella tradizione giuridica italiana verrebbe qualificato come caparra penitenziale» (cfr., F.P. Patti, Caparra (diritto comparato), in Dig. IV; Sez. Civ., Agg., Torino 2014)].

Certamente, non è in astratto impossibile che una medesima fattispecie sia considerata rilevante nel contesto di un’imposta e non relativamente ad un’altra. Si deve però ammettere che, in questo caso, è difficile rinvenire argomenti per affermare che la nozione di “obbligazioni di fare, non fare o permettere” assuma un diverso significato ai fini dell’imposta sui redditi e ai fini dell’i.v.a.

Cosicché delle due l’una:

  • o l’indirizzo che la Cassazione sembra voler affermare viene esteso anche all’imposta sul valore aggiunto, ma allora ci troveremmo dinanzi a un contrasto fra la qualificazione della caparra e della multa penitenziali rilevante ai fini nazionali e quella stabilita a livello unionale;
  • oppure, come mi sembrerebbe più corretto alla luce delle considerazioni prima svolte, la qualificazione (certamente corretta) fatta propria dalla giurisprudenza delle Corte di Giustizia UE viene recepita anche ai fini delle imposte dirette.

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