Considerazioni sul d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”: B) la “prova testimoniale e i suoi limiti oggettivi”
Tempo di Lettura: 7 minuti1. Quarant’anni dopo … ritorna la prova testimoniale
La prova testimoniale era stata esclusa dal processo tributario ad opera del d.P.R. n. 739 del 1981 e nessuno degli interventi riformatori susseguitisi nel tempo era riuscito ad eliminare un divieto che talvolta – sia pure, occorre ammetterlo, con una frequenza non elevatissima – era apparso limitativo dell’effettività della tutela.
Dopo quarant’anni, il legislatore inverte la rotta, ma con circospezione.
La modifica all’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992 non contiene l’eliminazione del divieto di prova testimoniale, ma solo la sua mitigazione.
Per essere più chiari, occorre precisare che la rimozione del divieto non avrebbe comportato, ovviamente, l’attribuzione di un potere indiscriminato delle parti di introdurre in giudizio la prova testimoniale.
Come per tutte le prove che si costituiscono nel processo, la loro ammissibilità in astratto corrisponde all’attribuzione al giudice del potere di stabilire in concreto, e su istanza di parte, se e quali testimonianze siano ammissibili e su quali capitoli di prova.
Nel processo tributario, con la novella di prossima introduzione, si perviene (rectius: si tenta di pervenire) a una soluzione intermedia.
Secondo la nuova disposizione, infatti, il potere del giudice di ammettere la prova testimoniale è soggetto ad alcuni limiti.
Tali limiti sono di due tipi. Da un lato, si hanno i limiti attinenti alla forma della prova testimoniale, ossia alle modalità con la quale essa è introdotta nel giudizio. Dall’altro lato, vi sono i limiti che riguardano l’oggetto della prova.
Questi ultimi sono quelli che sembrano maggiormente caratterizzare la nuova norma e meritano di essere specificamente considerati.
2. I limiti oggettivi
Crediamo di non andare errati dicendo che la disciplina dei limiti oggettivi è quella che darà più problemi agli interpreti e alla giurisprudenza determinando verosimilmente il coinvolgimento della Corte costituzionale.
La nuova formula dell’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, risultante dal disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri del 17 maggio 2022 (che differisce da quello elaborato dall’apposita commissione) recita: «Non è ammesso il giuramento. La Commissione, ove lo ritenga assolutamente necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile, quando la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso. In tali casi la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale.».
I limiti oggettivi sono quindi tre.
Il primo limite oggettivo è di carattere processuale: il giudice può ammettere la prova testimoniale solo se essa è «assolutamente necessaria».
Gli altri due limiti oggettivi hanno natura materiale. La prova testimoniale è ammessa solo nei giudizi di impugnazione di atti fondati su «verbali e altri atti facenti fede sino a querela di falso» e solo su «circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale».
3. Il limite oggettivo processuale
Il limite oggettivo processuale è dato dalla assoluta necessità della prova testimoniale ai fini della decisione.
Come accennato, si tratta di un limite introdotto in sede di esame del Consiglio dei Ministri sulla base di riflessioni non esplicitate, ma probabilmente riconducibili a un rigurgito della sempre latente ostilità del “sistema” (e dell’amministrazione finanziaria) nei confronti della prova testimoniale.
Si è voluto, quindi, circoscrivere ulteriormente il potere del giudice delimitandolo con una clausola elastica. Ossia il riferimento alla assoluta necessità.
Al di là della scelta “politica”, che non crediamo opportuno valutare in questa sede, lo strumento tecnico impiegato per operare questa delimitazione presenta almeno due criticità.
La prima criticità si può cogliere osservando che, tipicamente, l’ammissione dei mezzi di prova costituendi è soggetta al doppio limite della “possibilità” (che prende il nome di “ammissibilità” in senso proprio) e della “utilità” (ossia della “rilevanza”). Nel caso della norma in esame, a queste due condizioni – che il giudice tributario dovrebbe rispettare comunque secondo i principi generali e in forza del generale rinvio al codice di procedura civile – si aggiunge una terza condizione che è “anfibia”.
L’assoluta necessità, invero, implica un giudizio di “utilità” del mezzo di prova, ma rileva come condizione di “possibilità” (ossia di ammissibilità) dello stesso.
L’ammissibilità si sovrappone alla e si confonde con la rilevanza. Ed è inutile dire che tutte le figure concettualmente ibride sono sempre foriere di problemi applicativi di non lieve momento.
La seconda criticità è che il concetto di assoluta necessità non è solo elastico, ma è anche ambiguo. La migliore dottrina, parlando della utilità-rilevanza, ha da tempo chiarito che il giudizio di rilevanza non riguarda il mezzo di prova, ma il fatto da provare.
Vale lo stesso per l’assoluta necessità?
Vi è da dubitarne, perché il fatto da provare o è rilevante o non lo è. E se lo è, è pleonastico (anzi, è probabilmente errato) chiedersi se sia assolutamente necessario.
Ma se il giudizio di assoluta necessità si dovesse appuntare (non sul fatto da provare, per il motivo appena visto, ma) sul mezzo di prova, che ne è della regola dell’onere della prova?
Detto altrimenti, nessun mezzo di prova è indispensabile, perché il giudizio sul fatto non provato è comunque risolto in base alla regola dell’onere della prova.
Se, adesso, si introduce la regola della assoluta necessità, si potrà dire che il principio dell’onere della prova non opera là dove la parte non sia stata ammessa a provare per testimoni, in quanto la prova non era assolutamente necessaria?
Oppure, detto altrimenti, il giudizio di non assoluta necessità, implica forse il riconoscimento che la prova è stata comunque raggiunta?
Come si vede, già a una prima lettura, sull’inciso aggiunto nell’ultima versione del disegno di legge si affollano numerosi interrogativi. Ciascuno dei quali alimenterà dibatti dottrinali (e questo non è un male) e controversie giudiziarie (e questo è, invece, male).
4. I limiti oggettivi materiali: a) la relazione fra «pretesa tributaria» e i «verbali e altri atti»
La parte della disciplina di più complessa interpretazione è quella che attiene ai limiti oggettivi materiali.
Il primo limite non consiste in una precisa circostanza di fatto, bensì in una “relazione”.
La norma, cioè, individua due termini che sono la «pretesa tributaria» e i «verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso»; poi, richiede che fra questi due termini deve sussistere un rapporto nel senso che i secondi devono essere stati posti a «fondamento» della pretesa.
Il problema è che sia i due termini di riferimento, sia la relazione che deve sussistere fra gli stessi risultano piuttosto indeterminati.
Questa indeterminatezza si presenta con minore evidenza rispetto ai “verbali”, mentre è piuttosto evidente per quanto riguarda la nozione di “altri atti facenti fede sino a querela di falso”, la cui presenza nel sistema di attuazione dei tributi dovrà essere accertata di volta in volta.
Ma il vero problema riguarda le altre due nozioni: quella che individua il primo termine della relazione e quella che definisce la relazione in sé.
Il termine «pretesa tributaria», come è noto, corrisponde a una nozione dottrinale e giurisprudenziale. Ma, se non andiamo errati, è questa la prima volta che la locuzione ricorre in una formula normativa. Ciò non è necessariamente un male (e fornirà argomenti utili alle tesi dottrinali che identificano nella pretesa l’oggetto del processo tributario). Ma certamente pone un problema di individuazione della sua esatta portata.
Per esempio, ci si dovrà chiedere come deve essere intesa la «pretesa tributaria» rispetto ad atti impugnabili diversi dagli avvisi di accertamento o dagli atti della riscossione. Si pensi, ad esempio, ai dinieghi di agevolazione o al rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari. O anche ai meri atti di irrogazione di sanzioni.
Non meno problematico è l’inquadramento della relazione che deve intercorrere fra la «pretesa» e i «verbali e gli altri atti». Questo perché, in senso tecnico, i secondi non costituiscono propriamente il fondamento della pretesa. Di norma essi sono elementi della motivazione, per relationem, degli atti che esprimono la pretesa. Oppure si può dire che i verbali possono recare l’accertamento dei fatti posti a fondamento della pretesa.
In altri termini, il legislatore ha impiegato una formula, quantomeno, ellittica.
L’esigenza di brevità è spesso un’ottima giustificazione il ricorso a formule di questo tipo. Ma non è meno vero che esse affidano alla esperienza giurisprudenziale l’esatta precisazione del significato.
5. segue: b) le circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale
La sussistenza della indicata relazione fra pretesa tributaria e i verbali e altri atti facenti fede sino a querela di falso è condizione necessaria, ma non sufficiente per l’ammissione della prova testimoniale.
A questo primo limite materiale si aggiunge quello per cui la prova deve riguardare «circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale».
Questa disposizione può essere intesa in due sensi.
Un primo possibile significato è che la prova testimoniale non può essere utilizzata per contestare la c.d. verità “estrinseca” delle circostanze attestate dal pubblico ufficiale, ossia quelle che sono assistite dal valore di prova legale fino a querela di falso.
Questa interpretazione, tuttavia, riduce la portata dell’ultimo periodo dell’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992 a una mera puntualizzazione dell’ovvio.
Essa si limiterebbe a ribadire la regola generale secondo la quale per vincere la prova legale offerta dagli atti (ma sarebbe più corretto dire, documenti) facenti fede fino a querela di falso occorre … la querela di falso.
Cosicchè l’ambito della “controprova”, dinanzi a un documento fidefacente, può avere ad oggetto solo il c.d. “intrinseco”: posto che il documento attesti che Tizio ha reso una certa dichiarazione, la controprova (testimoniale o meno) non può riguardare il fatto storico della dichiarazione (l’estrinseco), ma il contenuto (intrinseco) della dichiarazione medesima.
Avremmo, quindi, una disposizione corretta, ma inutile.
Il che legittima la previsione secondo cui, ispirandosi al canone secondo cui la legge deve essere interpretata magis ut valeat, non mancherà chi prospetterà una diversa esegesi.
Ossia quella per cui, là dove esista la relazione predetta fra la pretesa e i verbali o altri atti fidefacenti, la prova testimoniale possa essere ammessa (a) per provare contro l’intrinseco dei fatti attestati e (b) per provare l’esistenza o l’inesistenza di altri fatti, rilevanti ai fini della pretesa, ma non oggetto (né come intrinseco, né come estrinseco) dei verbali e altri atti.
Val quanto dire che, secondo questa proposta ermeneutica, la presenza di verbali e atti facenti fede sino a querela di falso, sarebbe solo “occasione” e non “causa giustificativa” dell’ammissibilità della prova testimoniale.
In questo modo, si attribuirebbe un senso proprio alla disposizione, ma si creerebbero altri problemi.
In particolare, una volta che si riduca la presenza dei verbali e atti fidefacenti a mera occasione di ammissibilità della prova testimoniale, diventa difficile giustificare la previsione in sè di questo limite.
6. Conclusioni
È facile tirare le conclusioni delle osservazioni appena svolte.
L’intento di reintrodurre la prova testimoniale è certamente meritorio.
Meno meritoria è la sfiducia del legislatore nel giudice, al quale ben si sarebbe potuto riservare il monopolio del potere di valutare l’esistenza dei profili di rilevanza e ammissibilità del mezzo di prova.
Ma anche accettando che il potere del giudice venga in qualche misura limitato, risulta comunque auspicabile, specie nell’ambito di un intervento normativo diretto alla semplificazione e al contenimento del numero dei processi, una migliore elaborazione formale e concettuale delle disposizioni.