Considerazioni sul d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”: C) il giudizio monocratico a critica vincolata
Tempo di Lettura: 6 minuti1. Un rito speciale
Il rito introdotto dall’art. 2, comma 2, lett. a) e f), del disegno di legge recante “Disposizione in materia di giustizia e di processo tributari” può essere qualificato, con le precisazioni che seguono, come speciale.
In particolare, la lett. a) del citato secondo comma, prevede l’introduzione nel d. lgs. n. 546 del 1992 di un nuovo art. 4-bis che affida alle Commissioni tributarie in composizione monocratica «le controversie di valore fino a tremila euro». La nuova disposizione precisa, altresì: (i) che le controversie di valore indeterminabile restano affidate alla competenza delle Commissioni tributarie in composizione collegiale; (ii) che il valore è determinato ai sensi dell’art. 12, comma 2 del d.lgs. n. 546 del 1992.
Soprattutto, però, il terzo comma del nuovo art. 4-bis stabilisce che «Nel procedimento davanti alla Commissione tributaria provinciale in composizione monocratica si osservano, in quanto applicabili e ove non derogate dal presente decreto, le disposizioni contenute nel titolo I e nei titoli successivi relative ai giudizi resi in composizione collegiale».
Il richiamo alle deroghe alle disposizioni di generale applicazione è diretto a sottolineare la saldatura che si intende realizzare fra l’art. 4-bis e l’ultimo periodo dell’art. 52, comma 1, introdotto dall’art. 2, comma 2, lett. f) del disegno di legge in esame.
In particolare, quest’ultima disposizione stabilisce che le sentenze pronunciate dal giudice monocratico sono appellabili «esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, nonché per violazione di norme costituzionali o di diritto dell’Unione europea, ovvero dei principi regolatori della materia. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle controversie riguardanti le risorse proprie tradizionali previste dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione n. 2020/2053/UE, Euratom del Consiglio del 14 dicembre 2020, e l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione».
Il giudizio così disciplinato può intendersi come speciale nel senso che il giudice monocratico emette sentenze nei cui confronti l’appello non assume più la forma di un gravame, ossia di giudizio inteso a censurare l’ingiustizia della precedente decisione, sia pure nella forma della revisio prioris istantiae.
Invero, l’appello nei confronti delle sentenze del giudice monocratico assume le forme dell’impugnazione in senso stretto. Esso è, infatti, rivolto a censurare i vizi della sentenza di primo grado. Tali censure, inoltre, non sono a critica libera. L’appello è ammissibile, infatti, solo se denuncia la «violazione delle norme sul procedimento [… o …] di norme costituzionali o di diritto dell’Unione europea, ovvero dei principi regolatori della materia».
È però necessario evidenziare – e si tratta di un aspetto che, come vedremo, assume rilevanza sistematica – che limitazione dei motivi di appello non riguarda tutti i giudizi attribuiti alla competenza per valore del giudice monocratico.
Anche le controversie che riguardano «risorse proprie tradizionali previste dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione n. 2020/2053/UE, Euratom del Consiglio del 14 dicembre 2020, e l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione» sono devolute alla competenza del giudice monocratico, se di valore a tremila euro. Ma, in questo caso, l’appello resta disciplinato dalle regole generali.
2. La natura ibrida del rito monocratico speciale
Le ragioni ispiratrici di queste norme sembrano essere rivelate da due indici normativi.
Il primo indice è che la formula con la quale si definiscono i limiti dell’appello – ossia gli specifici motivi di critica alla sentenza di primo grado – è testualmente identica a quella con la quale l’art. 339 c.p.c. individua i motivi di appello avverso le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità.
Il secondo indice è che l’esclusione dall’ambito di applicazione di questo rito speciale delle «controversie riguardanti le risorse proprie tradizionali previste dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione n. 2020/2053/UE, Euratom del Consiglio del 14 dicembre 2020, e l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione» ricalca la formula con la quale sono individuate le controversie non soggette a reclamo-mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 546 del 1992.
E si deve ricordare che quest’ultima esclusione – al pari di quella relativa alle controversie in materia di aiuti di stato che, inspiegabilmente, non appare richiamata – è giustificata dalla natura indisponibile dei diritti che formano oggetto delle relative controversie.
Appare chiaro, allora, che il legislatore ha ritenuto di conformare l’appello relativo alle sentenze rese dalle Commissioni in forma monocratica secondo il modello proprio dell’impugnativa nei confronti delle sentenze rese secondo equità. In questa prospettiva, l’esclusione delle controversie in materia di risorse proprie dell’Unione europea è finalizzata a prevenire ogni obiezione circa la compatibilità del nuovo rito con controversie relative a diritti indisponibili.
Tuttavia, sebbene l’appello sia conformato tenendo presente l’impugnazione delle sentenze rese secondo equità, ciò è avvenuto senza qualificare come tali le sentenze rese dal giudice monocratico.
Quindi, avremo delle sentenze di primo grado che, almeno sulla carta, restano ad ogni effetto sentenze rese secondo diritto – ciò che appare addirittura ribadito dalla previsione espressa dell’applicabilità al rito monocratico delle regole proprie del giudizio collegiale – e che, però, sono appellabili secondo le regole proprie delle sentenze rese secondo equità.
Da questo punto di vista, ci sembra legittima l’affermazione per cui il rito speciale così delineato ha un carattere “ibrido”.
3. Le conseguenze della natura ibrida del rito speciale monocratico
La predetta natura ibrida non mancherà, a nostro avviso, di riflettersi sia sulla esatta esegesi della disciplina, sia sul giudizio (anche costituzionale) relativo alla sua legittimità.
Larga parte di queste conseguenze emergeranno dall’esperienza applicativa e dall’ulteriore studio ed approfondimento di questa disciplina. E ciò anche ponendola a confronto con il giudizio reso secondo equità ai sensi dell’art. 113 c.p.c.
Tuttavia, ci sembra di poter indicare fin d’ora che i limiti all’appello previsti dall’art. 52, comma 1, u.p. e quelli previsti dall’art. 339 c.p.c., pur formulati in termini lessicalmente identici, non presentano per definizione la medesima natura ed estensione.
Questa conclusione può essere tenuta ferma anche avendo presente che la Corte Costituzionale – nella sentenza in cui ha ritenuto costituzionalmente illegittima l’esclusione del sindacato sull’eventuale violazione da parte del giudice di page dell’obbligo di restare comunque aderente ai principi regolatori della materia – ha espressamente precisato che «La sola funzione che alla giurisdizione di equità può riconoscersi, in un sistema caratterizzato dal principio di legalità a sua volta ancorato al principio di costituzionalità, nel quale la legge è dunque lo strumento principale di attuazione dei principi costituzionali, è quella di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consenta una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua tuttavia dei medesimi principi cui si ispira la disciplina positiva: principi che non potrebbero essere posti in discussione dal giudicante, pena lo sconfinamento nell’arbitrio, attraverso una contrapposizione con le proprie categorie soggettive di equità e ragionevolezza. Il giudizio di equità, in altre parole, non è e non può essere un giudizio extra-giuridico» (cfr. Corte Cost., sent. n. 206 del 6 luglio 2004).
Anche se, in questa prospettiva, il giudizio di equità resta un giudizio di diritto, tuttavia il diritto attuato dallo stesso è quello emergente dai principi piuttosto che dalle singole disposizioni.
Viceversa, il giudizio del giudice monocratico dovrebbe essere un giudizio di diritto definibile, per affidarci a formule evocative, secundum legem e non secundum ius.
Quindi anche i motivi di appello, al di là della formula che li identifica, non potranno che adeguarsi a questo modello.
Questo vale certamente per il motivo della violazione delle norme sul procedimento che coinvolgerà in modo più intenso l’obbligo di motivazione, anche sotto il profilo della sua sufficienza e coerenza, nonché il complesso delle regole sulle prove, con particolare riguardo al principio dell’onere della prova.
Ma quanto detto non potrà che riflettersi, a nostro avviso, sulle modalità in cui si atteggerà il sindacato relativo alle violazioni dei principi regolatori della materia. Tanto più in un settore in cui l’enucleazione dei principi presenta margini di incertezza – anzi, di incompiutezza – assai rilevanti.
Per tacere, infine, del rilievo che avranno i vizi relativi alla violazione delle norme del diritto dell’Unione europea. In questo caso, per i tributi armonizzati, sarà quasi impossibile distinguere le impugnazioni delle sentenze dei giudici monocratici dai gravami avverso le sentenze rese in forma collegiale. Ma anche nel caso delle controversie riguardanti tributi non armonizzati, l’area dei vizi derivanti dalla violazione delle norme unionali si presenta tutt’altro che ristretta.
4. Il giudizio di cassazione
Lo scopo dell’introduzione del nuovo rito è certamente quello di ridurre il carico di lavoro della Corte Suprema di Cassazione.
Poiché le sentenze rese in sede di appello sono ricorribili per cassazione per tutti i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., il raggiungimento di questo obiettivo potrebbe essere la conseguenza di due fattori. Il primo fattore dovrebbe consistere in una diminuzione del numero degli appelli determinata dalla minore ampiezza dei motivi. Il secondo fattore potrebbe dipendere dalla maggiore “tenuta” delle sentenze di appello aventi un oggetto più circoscritto e di mero diritto.
Alla luce delle considerazioni svolte, sorge però il dubbio circa la reale efficacia deflattiva, almeno nel breve periodo, di questi fattori.
Da un lato, abbiamo visto che l’effettiva delimitazione dei motivi di appello non sembrerebbe essere tale da ridurre drasticamente il numero delle sentenze in astratto appellabili (per essere ictu oculi immuni dai vizi suddetti) e in concreto appellate (anche grazie all’“abilità” professionale dei difensori nel prestare formale ossequio ai vincoli normativi).
Dall’altro lato, ci sembra assai probabile che il sistema richiederà un periodo di rodaggio non breve, sia per i giudici di primo grado, sia per quelli di appello. E, verosimilmente, durante questo periodo il numero dei ricorsi per cassazione non subirà radicali riduzioni.
5. Un interessante laboratorio
I dubbi e le riflessioni critiche alle quali si è fatto cenno non devono però far velo a un’ulteriore considerazione.
È possibile, infatti, che, dinanzi a un rito conformato nei termini ibridi di cui si è detto, l’esperienza concreta conduca a sciogliere la potenziale aporia connotando il giudizio in modo più netto.
In questo caso, l’ambiguità potrebbe essere risolta ancorando decisamente il giudizio nell’ambito del giudizio di diritto. Ma potrebbe anche prediligersi la soluzione opposta, facendo virare il giudizio, anche di primo grado, verso il modello dell’equità, intesa, come si è detto, come giudizio “per principi”.
In questa seconda ipotesi, anche richiamando le espressioni della Corte costituzionale già citate, si darebbe un forte impulso proprio all’elaborazione dei principi propri del diritto tributario. Inoltre, se è vero che, come afferma la dottrina che maggiormente si è occupata del giudizio reso secondo equità, in esso il giudice opera come se avesse dinanzi a sé una lacuna, si avrebbe anche una potenziale “irruzione” dell’analogia nel diritto tributario.
Il giudizio relativo a liti bagatellari si trasformerebbe, quindi, in un laboratorio concettuale assai interessante.
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