CONTINUA LA SAGA DELL’ART. 20 DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Tempo di Lettura: 8 minutiCommento a Cass. Civ., Sez. V, Ord. n. 10283 del 31.3.2022
1. I fraintendimenti della Cassazione incompresa
Chi confidava nella possibilità che la sentenza della Corte Costituzionale n. 158 del 2020 avesse posto fine al travagliato rapporto della Cassazione con l’art. 20 del TUR resterà deluso dall’ordinanza in commento. E, probabilmente, resterà ancor più deluso chi auspicava che la fine del travaglio potesse essere determinata dalla modifica dell’art. 20 del TUR ad opera della l. n. 205 del 2017.
Poiché evidenti ragioni di spazio impediscono di poterci soffermare sui dettagli della complessa vicenda giurisprudenziale che ha preceduto e seguito la novella del 2017, vogliamo qui concentrarci su due punti specifici: (1) il primo è che questa ordinanza di rinvio pregiudiziale della Cassazione (al pari di quella di remissione alla Corte Costituzionale) si fonda su rilevanti fraintendimenti; (2) il secondo è che questi rilevanti fraintendimenti hanno, però, radici e spiegazioni profonde che non devono essere trascurate, perché è l’incomprensione delle “ragioni” (pur discutibili) della Cassazione che ha portato a nutrire le illusioni (e a patire le delusioni) di cui si diceva all’inizio.
2. L’alternatività rovesciata
Come si sarà inteso dalla premessa appena svolta, riteniamo che sia del tutto improprio liquidare sbrigativamente la “posizione” della Corte Suprema di Cassazione. Nondimeno, non possiamo omettere di rilevare, che, dal punto di vista giuridico, gli argomenti sui quali essa si fonda appaiono nient’affatto adeguati.
Innanzi tutto, già a prima vista, pare del tutto forzato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della questione di compatibilità dell’art. 20 TUR con la direttiva 2006/112/CE. E ciò per la semplice ragione che l’art. 20 TUR non è una norma relativa alla disciplina dell’i.v.a. Cosicchè, per definizione, essa non può essere valutata né in termini di compatibilità, né in termini di incompatibilità con la direttiva medesima.
L’inconferenza della disciplina unionale dell’imposta sul valore aggiunto rispetto alla questione sollevata dalla Corte di Cassazione non viene meno neppure se si guarda alla questione sotto il profilo che la «possibile divergenza in ordine al concetto di azienda nelle due imposte (IVA e tributo di registro) pare esigere una uniformità di interpretazione dei medesimi istituti giuridici nell’intero ordinamento tributario» (punto 29 dell’ordinanza n. 10283 del 2022).
Al riguardo, dobbiamo incidentalmente notare che, nel punto in esame, il pensiero del giudice di legittimità risulta monco. Infatti, la Corte, nel momento in cui s’incarica di indicare il fondamento di tale esigenza, esordisce dicendo che questo fondamento deve ravvisarsi nel fatto che «diversamente si pongono problemi, non tanto per quanto …» ma, poi, il periodo non si chiude con il prevedibile «bensì, in quanto». Cosicchè restano enunciati espressamente i problemi reputati meno rilevanti, ma non quelli decisivi.
A prescindere da questo deficit motivazionale, il punto è che l’esigenza di una nozione unitaria di azienda nell’i.v.a. e nell’imposta di registro sarebbe, a tutto concedere, puramente “interna” al nostro ordinamento. Viceversa, l’ordinamento unionale è del tutto indifferente a tale esigenza (ammesso che essa effettivamente sussista). Ciò discende dal fatto che l’imposta di registro non è un tributo armonizzato e che tanto meno si può ipotizzare l’esistenza di un’esigenza unionale di armonizzazione dell’intero ordinamento tributario. Conseguentemente, la Corte di Giustizia non può farsi carico di realizzare un obiettivo del tutto eccedente rispetto alle competenze dell’ordinamento unionale e proprie.
La Corte di Giustizia avrebbe potuto essere investita della questione solo se si fosse dimostrato che la (supposta) diversa nozione di azienda propria dell’imposta di registro pregiudica la corretta applicazione dell’i.v.a. La Corte di Cassazione, in effetti, evoca, in qualche modo, tale possibilità richiamandosi per un verso all’art. 40 del TUR e, per altro verso, al diritto alla detrazione dell’i.v.a.
Entrambi i richiami sono, però, del tutto impropri, anche se il primo, per i motivi che vedremo, appare sintomatico di quelle “ragioni” profonde che stanno alla base della posizione della Cassazione.
Invero, dall’ordinanza sembra emergere, in filigrana, l’idea che l’alternatività fra i.v.a. e imposta di registro si atteggi come complementarità. Cioè che là dove non si applica l’i.v.a. si deve applicare l’imposta di registro e che la mancata applicazione dell’una dipende dall’applicazione dell’altra.
Sappiamo bene che le cose non stanno in questo modo. L’art. 40 del TUR è norma che riguarda esclusivamente l’imposta di registro e che nulla dice circa l’ambito di applicazione dell’i.v.a.
In base al principio di alternatività, l’imposta di registro non può essere applicata alle operazioni soggette a i.v.a., ma non vale il reciproco. Le operazioni non soggette a i.v.a., cioè, restano tali anche se non sono soggette all’imposta di registro.
Le cessioni d’azienda – o, per l’esattezza, di “universalità di beni” – sono quindi escluse dall’ambito di applicazione dell’i.v.a. di per sé stesse. La ratio di questa esclusione, come è noto, è del tutto “interna” alla logica dell’imposta sul valore aggiunto. Essa dipende dal fatto che l’applicazione dell’i.v.a. potrebbe pregiudicare il principio di neutralità dell’imposta. Infatti, l’ammontare dell’imposta da assolvere in via di rivalsa da parte del cessionario darebbe luogo a un gravoso impegno finanziario che sarebbe recuperabile, tramite il diritto alla detrazione, solo nel medio-lungo termine-
Rispetto a questa ratio è del tutto indifferente, anzi irrilevante, l’eventualità che la cessione d’azienda sia eventualmente soggetta ad altra imposta. E questo sia perché, negli ordinamenti degli Stati membri, potrebbe anche mancare un tributo come l’imposta di registro cosicché, all’esclusione dall’i.v.a. potrebbe corrispondere strutturalmente l’esclusione tout court da ogni imposizione indiretta; sia perché, là dove c’è l’imposta di registro, la sua applicazione è, eventualmente, una conseguenza dell’esclusione dall’i.v.a., non la sua giustificazione.
Come dicevamo, la Corte di Cassazione sembra, implicitamente, rovesciare l’effettiva portata dalla regola dell’alternatività assumendo che, in definitiva, le due imposte (l’i.v.a. e l’imposta di registro) sono strutturate in modo da realizzare, nel loro complesso, la tassazione della totalità delle operazioni economiche: l’ambito di applicazione dell’una inizierebbe, cioè, dove finisce quello dell’altra e viceversa.
Così certamente non è. Soprattutto, non è (e non può essere) così dal punto di vista del legislatore unionale e della Corte di Giustizia. Ma si tratta di un preconcetto della Cassazione che deve essere tenuto presente e sul quale torneremo fra breve.
3. L’equivoco della detrazione
Quanto si è osservato, spiana poi la strada all’ulteriore considerazione dell’incidenza della (supposta) divergenza della nozione di azienda in relazione al diritto di detrazione dell’i.v.a.
Vi è un evidente non sequitur nell’affermazione della Corte di Cassazione secondo cui se «l’art. 20 TUR preclud[e] all’Amministrazione finanziaria […] di valutare le circostanze dell’operazione [allora] anche in presenza di elementi oggettivi che potrebbero far ritenere assente il diritto alla detrazione dell’IVA nei casi in cui ci si trovi in presenza di un’artificiosa scomposizione di un’unica operazione in più prestazioni, sarebbe esclusa la possibilità di contestarne la illegittima detrazione».
La statuizione è chiaramente non condivisibile. L’art. 20 del TUR nulla dice, infatti, sui criteri in base ai quali una cessione di azienda può essere accertata come esistente ai fini dell’i.v.a. L’esistenza o meno di un trasferimento dell’azienda – e, quindi, della spettanza o meno del diritto alla detrazione – deve essere accertata, ai fini i.v.a., sulla base dei criteri propri di tale imposta. E se l’operazione, secondo i principi sostanziali e le regole attuative dell’i.v.a., fosse qualificabile come cessione d’azienda essa sarebbe esclusa dal campo di applicazione di tale imposta. Conseguentemente, il cessionario non potrebbe detrarre l’i.v.a. ipoteticamente applicata alle cessioni frazionate dei singoli beni.
Ma a questo risultato si perviene del tutto indipendentemente dalla applicazione dell’art. 20 del TUR.
O, per meglio dire, a questo risultato si perviene del tutto indipendentemente dalla applicazione dell’imposta di registro. A meno che non si supponga che l’applicazione dell’imposta di registro sia biunivocamente correlata all’esclusione dell’i.v.a. Con il che, tuttavia, si cade nuovamente nell’errore precedentemente segnalato.
4. La lettura “riduzionistica” dell’art. 20 del TUR
Il ragionamento della Corte di Cassazione presenta, infine, un ulteriore rilevante limite.
Formalmente essa si pone il problema dell’unitarietà della nozione di azienda rispetto alle due imposte considerate. Ma se si riflette con attenzione sugli argomenti impiegati, ci si avvede che, in realtà, la questione sollevata è quella dell’adeguatezza dei metodi di accertamento.
Infatti, se la nozione (sostanziale) di azienda nell’imposta di registro fosse diversa da quella propria dell’i.v.a., allora il problema segnalato dalla Cassazione sussisterebbe anche se l’art. 20 del TUR fosse configurato in termini diversi, ossia se esso dovesse applicarsi secondo l’interpretazione adottata dalla Cassazione anteriormente alla novella del 2017.
Viene quindi in evidenza, ancorchè in modo implicito (e, forse, inconfessato), che in fin dei conti la Cassazione non lamenta l’esistenza di due distinte nozioni di azienda nell’imposta di registro e nell’i.v.a. Piuttosto, essa muove dal presupposto dell’esistenza di una nozione effettivamente unitaria che non può essere realizzata per effetto dell’intervento di un (improvvido) legislatore. L’oggetto della censura, in sostanza, è lo stesso già alla base dell’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale. Come si ricorderà, infatti, quell’ordinanza era fondata sul presupposto (giudicato erroneo dal giudice delle leggi) secondo cui la conformazione dell’imposta come “d’atto” avrebbe violato l’art. 53 Cost. essendo costituzionalmente imposto l’assoggettamento ad imposta dell’operazione secondo la sua causa concreta.
Nella prospettiva sia dell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, sia dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, pertanto, l’art. 20 del TUR è concepito in termini riduttivi. Detto altrimenti, esso è visto, in definitiva, come norma procedimentale che precluderebbe di applicare l’imposta in modo conforme al suo “vero” presupposto.
Posto il problema in questi termini, è allora evidente il vizio che inficia l’analisi della Corte Suprema di Cassazione. Essa si fonda su una contrapposizione – quella fra norme sostanziali e norme procedimentali – che, oltre ad essere controvertibile in generale, è da respingere nettamente per quanto attiene all’art. 20 del TUR.
Per ragioni che è inutile – e nemmeno possibile – richiamare in questa sede, l’art. 20 del TUR svolge certamente un ruolo strutturale. E l’individuazione del presupposto dell’imposta di registro non può che avvenire nisi tota lege perspecta.
5. L’incomprensione del problema ideologico
L’analisi dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia fa emergere, dunque, criticità assai rilevanti rispetto alla “tenuta” dell’intero impianto motivazionale sotto il profilo tecnico-giuridico.
Ma fermarsi a questo livello di analisi significa perpetuare un’incomprensione.
Al di là della criticabilità delle motivazioni tecniche, i giudici di legittimità avvertono, evidentemente, l’esistenza di un problema.
E il problema, a nostro avviso, sta tutto nella ambiguità della collocazione “ordinamentale” dell’imposta di registro. Un’ambiguità che, in definitiva, è esaltata, piuttosto che attenuata, dall’art. 40 del TUR. E in questo risiede, a nostro avviso, il nucleo di verità sotteso al richiamo di questa regola da parte della Cassazione.
Ovviamente, la questione non può essere trattata esaustivamente in questa sede e dobbiamo limitarci a pochi accenni.
In generale, si può dire che l’imposta di registro, specie nella sua configurazione come imposta d’atto, è sempre risultata più adeguata all’imposizione dell’attività negoziale dei soggetti non imprenditori. Invero, le difficoltà di adattamento dell’imposta di registro all’agire imprenditoriale – che è un agire strutturalmente fondato sull’attività negoziale – sono state avvertite sin dal XIX secolo. Una consapevolezza che ha condotto alla configurazione di imposte “di settore”, come l’imposta sulle assicurazioni, o a regole di (sostanziale) esclusione, come quella della registrazione solo in caso d’uso dei contratti conclusi mediante scambio di corrispondenza (secondo l’uso tipico della contrattazione fra “commercianti”). Ed è importante notare che queste discipline, anche se formulate in termini oggettivi, finivano per poter essere riferite a categorie di soggetti.
La riforma del 1972, dovendo disciplinare i rapporti fra l’imposta di registro e l’area dell’attività d’impresa “dominata” dall’i.v.a. ha fatto ricorso ancora una volta a un criterio di stampo oggettivo. Ma questa regola (ossia l’art. 40 del TUR), nel tracciare una linea di confine che dovrebbe essere specificamente riferita all’imposta di registro, si fonda su nozioni che non sono proprie di tale imposta. La categoria degli «atti relativi a cessioni di beni e prestazioni di servizi» e quella delle «operazioni» (che troviamo entrambe nell’art. 40 del TUR) fanno riferimento, nel primo caso, a una combinazione di criteri qualificatori (l’atto, nozione propria dell’imposta di registro, e la cessione o la prestazione, nozione propria dell’i.v.a.) o a una nozione del tutto estranea (l’operazione, appunto).
Il che, ovviamente, determina inevitabilmente “contaminazioni” fra la logica dell’una e dell’altra imposta. Contaminazioni, peraltro, favorite dal fatto che, con un apprezzabile intento semplificatorio, il legislatore del 1972 ha sostituito alla precedente tariffa (composta da oltre 140 voci), quella odierna, basata su solo 11 voci. Un accorpamento certamente utile, ma che ha contribuito a favorire, una volta di più, la considerazione del risultato negoziale, piuttosto che quella degli effetti propri del singolo atto.
L’elenco degli elementi di ambiguità che persistono nell’imposta di registro – troppo ottimisticamente reputati superabili da un brillante intervento sul solo art. 20 del TUR – specialmente nei suoi rapporti con l’attività d’impresa potrebbe continuare.
Ma sarebbe un esercizio che eccede i limiti di questo commento a caldo.
Le indicazioni che precedono sembrano di per sé sufficienti a giustificare il formarsi di una mentalità propensa all’unificazione – quantomeno nel segno della ricordata complementarità – dell’area di applicazione delle due imposte qui considerate. E a questo dato potrebbe forse aggiungersi che i punti critici di ogni sistema costituiscono per il teorico o l’operatore pratico l’occasione per ricercare nuove soluzioni, ma rappresentano, invece, lacune da colmare o aporie da eliminare per il giudice.
Il che non vuol dire che la strada percorsa dalla Cassazione sia condivisibile. Anzi, a nostro avviso, essa è foriera di una moltiplicazione dei problemi. Perché, se si muove dal presupposto dell’esigenza di unitarietà, si devono necessariamente eliminare tutte le differenze che inevitabilmente esistono fra le due imposte. Differenze certamente non limitate alla nozione di azienda: basti pensare alla nozione di cessione di bene relativamente ai contratti di locazione finanziaria.
Tuttavia, se la Cassazione propone una soluzione non proficua (nei risultati ultimi), nè adeguatamente meditata (nell’impostazione concettuale), non deve essere sottovalutato il fatto che essa obstinata mente obdurat.
È vero, infatti, che non si può escludere del tutto che questo atteggiamento possa essere la reazione a ciò che è avvertito come un’invadenza da parte del legislatore. Ma è anche assai probabile che sia il sintomo di un malessere che, chiaramente, non deve essere trascurato.
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