DALLA CASSAZIONE UN CONTRIBUTO ALLA CHIAREZZA SU OBBLIGAZIONI DI FARE, DI NON FARE, DI PERMETTERE
Tempo di Lettura: 11 minutiCommento a Cass. civ., Sez. V, ord. 15 luglio 2021, n. 20316
1. Finalmente uno spiraglio di luce
È a tutti noto che negli ultimi tempi si sono moltiplicate le risposte a interpello dell’Agenzia delle Entrate nelle quali si è consolidato l’orientamento secondo cui i pagamenti posti in essere nel contesto di una transazione e correlati (anche) alle rinunce alla lite (in essere o minacciata) e a ogni altra pretesa costituiscono il corrispettivo di una obbligazione di fare ai sensi e per gli effetti dell’art. 67, comma 1, lett. l) del t.u.i.r., nonché dell’art. 3 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Da parte nostra, abbiamo sempre ritenuto del tutto infondata tale conclusione – specie nella sua assolutezza – e, in alcune occasioni, ci siamo permessi di commentare criticamente il predetto orientamento (cfr., Obbligazioni di “fare” e obbligazioni di “disporre”: distinzione o coincidenza?, già in RDT online e ora in Casi e osservazioni di diritto tributario, Bari 2021, 287 ss. e Ma dove sta il servizio?! Note minime sull’insostenibile posizione dell’Agenzia in tema di accordi transattivi e IVA¸ in www.fransoni.it e ora in Casi e osservazioni di diritto tributario, Bari 2021, 451 ss.) secondo un ordine d’idee che ha trovato accoglienza anche in altra dottrina (cfr. R. Rizzardi, Le norme IVA in contrasto con la direttiva o la ratio legis, in Corr. trib., 2021).
Non avevamo, tuttavia, la presunzione di ritenere che l’Agenzia potesse lasciarsi influenzare dalle opinioni della dottrina e, infatti, essa è rimasta tetragona nella sua posizione ribadendola più volte (cfr., le risposte a interpello 22 settembre 2020, n, 386; 3 marzo 2021, n. 145; 16 marzo 2021, n. 179; 26 marzo 2021, n. 212; n. 401 del 10 giugno 2021).
È con notevole sollievo che, quindi, dobbiamo salutare le indicazioni contenute nell’ordinanza in commento nella quale la Corte Suprema di Cassazione assume anch’essa una posizione contrastante con quella affermata dalla prassi dell’Agenzia. Ed è lecito auspicare che l’intervento della Cassazione in questo dibattito non rimanga del tutto inascoltato.
2. Gli argomenti della Cassazione
Il ragionamento condotto dalla Corte Suprema di Cassazione è del tutto essenziale e si compone, sostanzialmente, di tre affermazioni.
La prima è che per cogliere la reale natura reddituale dei proventi conseguiti per effetto della transazione non si debba guardare alla rinuncia in sé, ma occorra guardare a cosa si è effettivamente rinunciato.
La seconda statuizione – che, a ben vedere, non è altro che il presupposto di quella precedente – è che assumere che gli «obblighi di fare, non fare o tollerare come categoria autonoma e generale della transazione … significa accordare a quell’istituto una funzione novativa sotto il profilo fiscale».
Infine, la terza affermazione costituisce una sorta di argumentum ad absurdum. La Cassazione, infatti, sottolinea che, volendo condurre alle estreme conseguenze la posizione dell’Agenzia e, quindi, ritenendo attribuibile alla transazione una efficacia “novativa sotto il profilo fiscale” si dovrebbe pervenire alla conclusione che le parti possano, in via negoziale, conformare diversamente il titolo dell’attribuzione patrimoniale rilevante ai fini fiscali, sostituendo il titolo “transattivo” a quello originario.
Prescindendo da quest’ultima affermazione – che, ancorchè sottile, ci sembrerebbe avere un valore essenzialmente rafforzativo delle precedenti considerazioni – il significato delle altre due, pur nella sua loro stringatezza, appare assolutamente chiaro.
La Corte, invero, riconosce che l’obbligazione di rinunciare alla lite e a ogni altra pretesa è un’obbligazione (di “disporre”, secondo la denominazione che avevamo utilizzato nello scritto prima citato, piuttosto che di “fare”) la quale non ha un valore “finale” – e, come tale, non assurge a «categoria generale e autonoma della transazione» – bensì meramente “strumentale”, in funzionale alla migliore soddisfazione dell’interesse (finale, appunto) in vista del quale era stata iniziata o minacciata la lite cui si pone fine per effetto delle reciproche concessioni.
Cosicché, l’inquadramento del provento conseguito per effetto della transazione nelle categorie reddituali e nelle relative fattispecie deve avvenire, come noi stessi avevamo affermato nella nota prima richiamata, «traguarda[ndo] l’obbligazione assunta (la quale risulta, pertanto, non suscettibile di autonoma considerazione)» ovvero, per usare le parole della Cassazione, «indaga[ndo] cosa viene “remunerato” con l’atto transattivo» concluso fra le parti.
Sia pure con due formulazioni diverse, il concetto espresso è, palesemente, il medesimo. Tuttavia, affinché la sinteticità dell’espressione non pregiudichi l’intellegibilità della tesi, può essere utile cercare di approfondire ulteriormente, spiegando perché e in che modo occorra non fermarsi alla “remunerazione” e alla correlata “rinuncia”, ma si debba indagare «cosa viene remunerato».
3. Una premessa di metodo
In via del tutto preliminare, è bene avvertire che la definizione della rilevanza fiscale della transazione e degli obblighi nascenti dalla stessa non assume (rectius: non può per definizione assumere) valore unitario rispetto alla generalità delle imposte.
Al contrario, tale valore non può che essere definito “all’interno” del sistema di ciascun tributo.
Questa regola generale, che potrebbe sembrare anche banale, vale anche, e soprattutto, rispetto alle due principali imposte considerate dalla giurisprudenza e dalla prassi, ossia l’i.v.a. e le imposte sui redditi (i.r.pe.f. o i.re.s.).
Per essere più espliciti, i discorsi che occorre fare per tali due imposte non conducono sempre e necessariamente alle medesime conclusioni.
Invero, se ci poniamo nella prospettiva dell’Agenzia delle Entrate, ossia se muoviamo dalla nozione di obbligazioni “di fare, di non fare o di permettere”, non possiamo fare a meno di rilevare che queste (obbligazioni) sono richiamate con formule diverse nell’ambito della disciplina delle due imposte.
L’art. 67, comma 1, lett. l) del t.u.i.r., infatti, attribuisce rilevanza ai «redditi derivanti […] dalla assunzione di obblighi di fare, di non fare o di permettere». Viceversa, l’art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972 considera rilevanti ai fini i.v.a. «le prestazioni […] dipendenti […] da obbligazioni di fare, di non fare o di permettere».
La prospettiva è palesemente diversa nel senso che, mentre ai fini dell’i.r.pe.f. ciò che, in prima battuta, occorre verificare è se l’assunzione dell’obbligazione di fare, di non fare o di permettere è la “fonte” di un provento (da qualificare eventualmente come reddito imponibile), nel caso dell’i.v.a., invece, si deve stabilire se dalle medesime obbligazioni “dipende” una “prestazione” (qualificabile come servizio e, quindi) rilevante ai fini di un’imposta sui consumi.
Rispetto a un’imposta sui redditi, detto diversamente, ciò che assume importanza centrale è certamente il provento (o, se si preferisce, l’incremento patrimoniale) conseguito da chi assume l’obbligo; un provento che già di per sé orienta verso la sua rilevanza reddituale proprio perché, in definitiva, chi lo consegue incrementa il proprio patrimonio. Cosicché le considerazioni che si dovranno fare, al riguardo, per confermarne o negarne la natura reddituale riguardano il sistema dell’imposta nel suo complesso, dovendosi verificare, per un verso, se il sistema è orientato a riconoscere natura reddituale indiscriminatamente a tutti gli incrementi patrimoniali (ossia se adotta una nozione di reddito tendenzialmente riconducibile a quella di reddito-entrata) e, per l’altro verso, se esistono altre fattispecie reddituali alle quali, comunque, quell’entrata è riconducibile.
Viceversa, nel caso, caso dell’i.v.a. deve attribuirsi importanza preminente (non al provento che consegue chi assume l’obbligo, ma) alla prestazione che dipende dall’obbligo assunto. I proventi (ossia gli incrementi patrimoniali) nel sistema dell’i.v.a. non sono mai di per sé rilevanti o, meglio, la loro rilevanza è confinata alla determinazione della base imponibile. Ciò che conta – ossia ciò che costituisce l’elemento centrale dell’imposta – è l’operazione intesa come cessione di beni o prestazione di servizi. E non si deve nemmeno enfatizzare eccessivamente il fatto che la prestazione di servizi è imponibile solo se resa verso corrispettivo, perché in realtà tale specificazione serve solo a circoscrivere le operazioni rilevanti in quanto incluse in un circuito di “scambio” (tanto è vero che rilevano anche le prestazioni di servizi dedotte in assetti meramente onerosi).
Il discorso sul rapporto fra corrispettività e onerosità nell’i.v.a. meriterebbe certamente ulteriori approfondimenti, che qui non possiamo naturalmente fare.
Ci sembra però sufficiente, ai nostri fini, aver posto in evidenza come il dato centrale – e quindi l’oggetto primario dell’indagine – sia ben differente rispetto alle due imposte considerate: nell’i.r.pe.f. è essenziale aver riguardo alla natura dell’incremento patrimoniale conseguito dall’obbligato, nell’i.v.a., invece, si deve partire dalla prestazione che costituisce l’oggetto dell’obbligazione e dalla sua natura.
4. L’interesse rilevante nella transazione
La precedente premessa – oltre a fornire un’opportuna indicazione di metodo – aiuta anche a comprendere meglio il pensiero della Corte Suprema di Cassazione.
Come abbiamo già più volte riferito, essa afferma che «occorre indagare cosa sia stato “remunerato” con l’atto transattivo sottoscritto» e, poco dopo, ribadisce il concetto precisando che «occorre, pertanto, guardare alla ragion d’essere ed alla natura dei diritti dedotti in transazione per fondare su quelli (e non su questa) il regime fiscale appropriato».
Ed è ovvio che la “ragion d’essere” della transazione – di ogni transazione – non è, ovviamente, la “rinunzia” alla pretesa, bensì la soddisfazione degli interessi delle parti e delle conseguenti pretese.
Detto altrimenti, la rinunzia, nella transazione, è funzionale al consolidamento e non al conseguimento del risultato che è quello di ottenere la soddisfazione del proprio interesse. Il fatto che tale soddisfazione sia determinata dal pagamento di una somma “quantitativamente” inferiore alla pretesa avanzata nel momento in cui la lite è stata proposta o minacciata non significa affatto l’interesse non sia comunque definitivamente soddisfatto. E ciò in quanto, con l’accordo transattivo, si sostituisce alla pretesa originaria quella corrispondente ad un (ri)calcolo economico fondato sulla ponderazione dei rischi, degli oneri e dell’attesa connessi al perseguimento di una somma maggiore, da un lato, con la certezza del conseguimento immediato di una somma minore, dall’altro. Una volta che il calcolo economico ridetermini la pretesa indicando a ciascuna parte che è preferibile il pagamento di una somma minore, ma certa e immediata, esso (pagamento) non potrà che avere valore pienamente e definitivamente satisfattivo dell’interesse medesimo.
Cosicché è evidente che il pagamento non “remunera” la rinunzia, perché la sua unica funzione è quella di soddisfare un interesse qualitativamente identico – ancorchè quantitativamente inferiore – a quello per il quale era stata avanzata (giudizialmente o extragiudizialmente) la pretesa che aveva determinato il conflitto composto in via transattiva.
Una volta soddisfatto l’interesse – per come esso è configurato dai calcoli economici a monte di qualsiasi negozio – la rinuncia non è altro che una necessaria implicazione dell’effetto satisfattivo, privo di qualsivoglia autonomia.
Più in particolare, come non possono coesistere, per quella «contraddizion che nol consente», la volontà di pentirsi e quella di peccare secondo il celebre verso dantesco, così (e a maggior ragione) la volontà di ritenere satisfattivo il pagamento ricevuto non può coesistere con quella di proseguire la lite che deve essere conseguentemente rinunciata per attestare la definitiva soddisfazione della pretesa.
Se, quindi, nella prassi contrattuale la rinunzia viene (correttamente) esplicitata, ciò avviene solo perché la transazione s’innesta su un precedente conflitto che deve essere definito e questo rende indispensabile che si rinunci alla lite, come d’altra parte indica l’art. 1965 c.c.. Cosicché, a ben vedere, quella rinunzia non è altro che il riconoscimento della conseguita soddisfazione dell’interesse di ciascuna parte nella misura concretamente valutata idonea secondo le prospettive che sono andate maturando nel corso delle trattative che precedono la stipula della transazione.
Pertanto, ciò che deve essere “traguardato” – secondo le indicazioni della stessa Corte Suprema di Cassazione – ai fini del corretto inquadramento (sotto il profilo delle imposte sui redditi e dell’i.v.a.) delle vicende patrimoniali conseguenti a una transazione è, quindi, l’interesse alla base dell’originaria pretesa o, se si vuole, il “titolo” in base alla quale essa era stata avanzata.
5. Conseguenze dell’approccio della Cassazione: a) ai fini dell’imposta sul valore aggiunto
Il discorso fin qui svolto consente, a nostro modo di vedere, di inquadrare la questione ai fini i.v.a. in modo sufficientemente semplice.
Ovviamente, non si può generalizzare eccessivamente, visto che, com’è a tutti noto, la transazione, come contratto, non prevede alcun limite al tipo e alla natura delle “concessioni” reciproche che pongono fine alla lite. Cosicché è ben possibile che la concessione che una parte fa all’altra possa consistere nella cessione (imponibile) di un bene, o nella esecuzione (anch’essa imponibile) di un’opera o di una consulenza ecc.
Se, tuttavia, facciamo riferimento allo schema base nel quale una parte versa all’altra una somma di denaro a tacitazione di ogni e qualsivoglia pretesa, la transazione, proprio nella prospettiva di traguardare l’interesse effettivamente realizzato, è la causa di un pagamento finalizzato a soddisfare un pretesa:
- avente titolo in un adeguamento del corrispettivo di un’operazione rilevante ai fini dell’i.v.a.;
- oppure avente titolo in un diritto al risarcimento del danno.
D’altra parte, se si guarda alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, ci si avvede che, in genere, la Corte, quando prende in considerazione il pagamento di somme che non sono direttamente correlate a una prestazione di servizi o a una cessione di beni, si preoccupa di stabilire proprio e innanzi tutto se questa correlazione comunque vi sia, sebbene in modo mediato.
Con la conseguenza che il pagamento di somme di denaro identicamente riconducibili alla nozione di “caparra o multa penitenziale” sono state differentemente qualificate o come irrilevanti ai fini dell’i.v.a. a cagione del titolo “puramente” di indennitario che ne giustifica il pagamento (cfr., CGUE, sent. 18.7.2007, Société Thermale d’Eugénie-les-Bains, C-277/05), oppure rilevanti perché, anche in una logica economica¸ trovano la loro giustificazione in una integrazione del corrispettivo di altra prestazione (cfr., sentt. 11.6.2020, Vodafone Portugal, C-43/19 e 22.11.2018, MEO – Serviços de Comunicações, C-295/17).
E lo stesso approccio è dato riscontrare in CGUE sentenza 15.12.1993, Lubbock Fine & Co., C-63/1992 nel caso di un’indennità di “buonuscita”.
In tutti questi casi, tuttavia, la rilevanza ai fini dell’imposta non è mai la conseguenza della individuazione di un’autonoma operazione – come avviene se si segue l’impostazione preferita dall’Agenzia delle Entrate – e, soprattutto, la Corte non è mai neppure sfiorata dal dubbio che ci si possa trovare dinanzi al corrispettivo di un’obbligazione di fare avente ad oggetto la risoluzione del contratto o la rinuncia a un diritto.
Invero, il problema della rilevanza ai fini i.v.a. si risolve in una questione di determinazione dell’entità della base imponibile e dell’imposta, mai in quella dell’integrazione del presupposto del tributo.
Con la conseguenza nient’affatto marginale che l’i.v.a. sarà applicata – come appunto chiaramente indicato nella sentenza 15.12.1993, Lubbock Fine & Co., C-63/1992 – avendo riguardo non all’ipotetica autonoma prestazione di fare, di non fare o di permettere, ma con riferimento alle caratteristiche proprie dell’operazione la cui base imponibile è modificata dal pagamento di una somma addizionale. Di talché, se il maggior pagamento incrementa il corrispettivo di un’operazione esente o esclusa, non sarà dovuta alcuna maggiore imposta.
Pur ribadendo che, ovviamente, la realtà presenta mille sfaccettature diverse e che quindi non si può individuare una regola che abbia validità assoluta, crediamo che, in prima battuta, le indicazioni della Cassazione conducano a ritenere che questo sia il corretto approccio dal quale muovere per l’individuazione del regime fiscale di una transazione ai fini dell’i.v.a.
6. Segue: b) ai fini dell’imposte sui redditi
Quanto all’i.r.pe.f., il principio fissato dalla Corte Suprema di Cassazione nell’ordinanza in esame porta a seguire, ai fini della qualificazione dell’incremento patrimoniale conseguente alla somma incassata in base alla transazione, un procedimento logico che potremmo astrattamente indicare come quadrifasico.
In primo luogo, risulta necessario partire dall’art. 6, comma 2, del t.u.i.r., dalla cui lettura a contrario si trae il principio secondo il quale il risarcimento del danno emergente non è redditualmente rilevante. Ovviamente, l’ipotesi del risarcimento danno emergente non è l’unica “frontiera” esistente nel nostro sistema rispetto alla nozione di reddito entrata “puro”, tuttavia questa ci sembra, nel caso di un accordo transattivo, l’unica ipotesi concretamente prospettabile in alternativa a quelle che saranno esaminate nel prosieguo.
Se la risposta a tale quesito è positiva, il provento non sarà soggetto ad imposta. Se, invece, la pretesa soddisfatta nell’ambito della transazione non è quello al risarcimento del danno emergente, risulta allora verosimile che ci si trovi dinanzi a un provento imponibile e la seconda fase del processo di qualificazione dovrebbe consistere nel verificare se la pretesa soddisfatta mediante il pagamento della somma pattuita in sede transattiva sia quella a una diversa e più adeguata remunerazione di una prestazione di lavoro dipendente o di lavoro autonomo, di un impiego di capitale ecc.
In caso di risposta affermativa al precedente quesito, il provento dovrà, naturalmente, considerarsi a tutti gli effetti quale reddito di lavoro dipendente, o di lavoro autonomo o di capitale e così via. Il che, peraltro, è attestato chiaramente, per i redditi di lavoro dipendente e di collaborazione coordinata e continuativa, dalla previsione di cui all’art. 17, comma 1, lett. a) e c) del t.u.i.r.
Ove, invece, il precedente quesito dovesse avere risposta negativa e non fosse possibile considerare la somma dovuta in base alla transazione quale diretta e immediata integrazione del reddito riconducibile a una delle fattispecie specificamente considerate dal testo unico (ivi incluse le singole ipotesi di cui all’art. 67 del t.u.i.r.) ci si dovrebbe interrogare, in terzo luogo, se la somma percepita per effetto dell’accordo transattivo possa qualificarsi quale provento sostitutivo ai sensi dell’art. 6, comma 2, t.u.i.r. (avendo presente che la fattispecie dei proventi sostitutivi comprende anche quella del risarcimento del lucro cessante, ma non si esaurisce in essa). Anche in questo caso – il quale sembra, poi, quello effettivamente ricorrente nell’ambito della vicenda risolta dalla Corte di Cassazione – il provento sostitutivo dovrebbe essere assoggettato a imposta secondo le regole proprie del reddito sostituito.
Infine, se gli interrogativi affrontati in tutte le precedenti fasi avessero ricevuto una risposta negativa, si porrà il problema di applicare l’art. 67, comma 1, lett. l) e, a questo punto, vi è la necessità di risolvere una questione teorica alla quale è possibile solo accennare in questa sede.
In particolare, si pone il problema di stabilire:
- se tale diposizione assume in pieno la funzione di norma residuale (ossia, equivalga, in pratica, alla formula “ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente decreto” come un tempo disponeva l’art. 80 del d.P.R. n. 597 del 1972) secondo un approccio che potrebbe trovare un addentellato normativo nella norma “interpretativa” recata dall’art. 36, comma 34-bis, del d.l. n. 223 del 2006 (la quale, com’è noto, prescrive che i proventi illeciti, ove non riconducibili ad altre categorie reddituali, sono assoggettati ad imposta come redditi diversi);
- oppure se la disposizione sia finalizzata a disciplinare la tassazione di alcune forme marginali di redditi “da attività”, come dimostrerebbe l’accostamento fra i proventi di attività di lavoro autonomo occasionali e quelli derivanti dall’assunzione di obbligazioni di fare.
Ove si opti per la prima soluzione non vi sarebbero dubbi circa l’imponibilità del provento percepito in base alla transazione; nel caso inverso occorrerebbe invece interrogarsi circa possibilità di considerare quale obbligazione di fare rilevante solo quella che implica un dispiego fisico di energie, oppure se costituisce obbligazione di fare anche quella avente ad oggetto atti di mera espressione dell’individuale autonomia negoziale (ossia gli obblighi a contrarre).
Ma, come dicevamo, questo è un problema molto più complesso che non può essere affrontato in questa sede e che, comunque, una volta che si accetti il principio enunciato dalla Corte Suprema di Cassazione, meriterà di essere affrontato solo in ipotesi tutto sommato marginali.
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