Gli equivoci pericolosi sui rapporti fra funzione amministrativa e processo

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Commento a Cass. civ., Sez. trib., Ord. 9 ottobre 2019, n. 25288


1. I principi affermati dalla Cassazione in tema di rapporto fra le regole strumentali all’attuazione dei tributi e il processo tributario

Volendo provare a sintetizzare il contenuto di questa ordinanza, direi che essa può così essere riassunta:

  1. la titolarità di posizioni soggettive rilevanti ai fini della determinazione dell’imposta dovuta non dipende dal rispetto delle regole formali in quanto «in presenza di una violazione formale intesa come inadempimento di un obbligo distinto dalle condizioni essenziali previste dalle direttive IVA per l’esercizio della detrazione – la questione da risolvere è esclusivamente di natura probatoria»;
  2. conseguentemente, «se il contribuente si attiene agli obblighi formali-contabili prescritti dalla normativa interna grava, sull’Amministrazione fiscale che intenda disconoscere il diritto a detrazione negando la corrispondenza della realtà effettuale a quella rappresentata nelle scritture contabili l’onere della relativa contestazione e della consequenziale prova. Diversamente, se il contribuente non si attiene alle prescrizioni formali e contabili disciplinate dall’ordinamento interno, è onere dello stesso, a fronte della contestazione di omissioni o irregolarità, fornire adeguata prova dell’esistenza delle condizioni sostanziali cui la normativa comunitaria ricollega l’insorgenza del diritto alla detrazione»;
  3. «Queste considerazioni, che riguardano l’IVA, possono essere estese pure all’IRPEF ed all’IRAP»;
  4. ne discende che la dichiarazione tributaria è sempre emendabile, non solo secondo le regole procedimentali previste, «ma, altresì, in sede contenziosa, per opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria»;
  5. questo in quanto (e si tratta dell’affermazione più importante) «dinanzi alla posizione del contribuente quale titolare di diritti soggettivi perfetti derivanti dalla legge nazionale e dal diritto dell’UE, è il processo tributario il contesto privilegiato nel quale l’esigenza della giusta imposizione trova la sua armonica realizzazione a prescindere da moduli procedimentali diretti a garantire ed agevolare l’azione amministrativa»;
  6. e questo, secondo la Corte, non determinerebbe alcuna alterazione del rapporto “fisco”-“contribuente” perché, come il contribuente può «porre rimedio a errori e omissioni […], in presenza di situazioni legali e veritiere, in via di eccezione direttamente nel processo tributario in sede di impugnazione dell’atto di controllo formale dell’Amministrazione finanziaria» così pure «il fisco può contestare in giudizio l’esistenza di un credito anche laddove siano decorsi i termini per l’accertamento».

Tale posizione potrebbe essere salutata favorevolmente e giudicata espressione di “principi di civiltà giuridica”.

A mio avviso, invece, essa deve essere accolta con estrema cautela perché la nozione di processo tributario che sembrerebbe riflessa in questa sentenza è alla base di numerose soluzioni giurisprudenziali che, pressoché unanimemente, sono ritenute assai meno favorevoli per i contribuenti e, più in generale, non conformi all’assetto del nostro ordinamento

Per essere più espliciti, si deve ritenere che la visione del processo  – e dei suoi rapporti con le precedenti fasi proprie della disciplina dell’attuazione dei tributi (dichiarazioni, controlli, rettifiche, procedimenti di rimborso ecc.) – qui sostenuta dalla Corte di Cassazione sia alla base, in modo più o meno esplicito – e, forse, anche in modo non del tutto consapevole – degli ulteriori orientamenti giurisprudenziali che:

(i) reputano che l’impugnazione di taluni atti possa essere meramente “facoltativa”;

(ii) ritengono tutto sommato superfluo il contraddittorio se non nei casi espressamente previsti;

(iii) consentono all’Agenzia delle Entrate di contestare la spettanza del rimborso anche sulla base di allegazioni in fatto e in diritto diverse da quelle indicate nella motivazione degli atti diniego espresso di rimborso;

(iv) legittimavano, fino all’introduzione dello specifico divieto contenuto nell’art. 10-bis, dello Statuto dei diritti del contribuente, la rilevazione officiosa dell’abuso del diritto.

Si tratta di un’elencazione meramente esemplificativa che assai verosimilmente può essere integrata con il richiamo di altre statuizioni giurisprudenziali tutte accomunate dalla rilevante (se non, addirittura, integrale) svalutazione dei moduli procedimentali attuativi che si collocano a monte del processo tributario.

E tale svalutazione a me sembra davvero priva di giustificazione e foriera di molti (e pericolosi) equivoci.

2. Il rapporto fra il richiamato orientamento giurisprudenziale e la tesi dell’ “impugnazione-merito”

Da un punto di vista teorico, si potrebbe ritenere che i principi prima enucleati dall’ordinanza in commento siano perfettamente in linea con le soluzioni teoriche che attribuiscono al processo tributario la struttura di “impugnazione-merito”.

Sarebbe cioè, apparentemente, lecito assumere che la affermazione secondo la quale «il processo tributario [è] il contesto privilegiato nel quale l’esigenza della giusta imposizione trova la sua armonica realizzazione a prescindere da moduli procedimentali diretti a garantire ed agevolare l’azione amministrativa» costituisca nient’altro che la definitiva conferma della tesi secondo la quale il processo ha formalmente struttura impugnatoria, ma sostanzialmente tende all’accertamento del rapporto.

Questa conclusione è, in realtà, affrettata, almeno se si ha riguardo alle prospettazioni della tesi dell’“impugnazione-merito” che non riducono la struttura impugnatoria del giudizio a una mera (mi scuso per il gioco di parole) “sovrastruttura”.

Secondo la prospettiva che a me pare condivisibile – e che, in effetti, riduce in larga misura lo iato fra la tesi dell’“impugnazione-merito” e quella contrapposta che configura il processo in chiave di mero annullamento – il processo tributario ha una struttura necessariamente impugnatoria. E questo perché l’attuazione delle situazioni giuridiche soggettive (le obbligazioni, i crediti, le “posizioni soggettive” in generale, ecc.) è configurata nel nostro sistema come un’attuazione a carattere necessariamente amministrativo. E ciò diversamente da quanto avviene per le situazioni giuridiche soggettive regolate dal diritto privato, la cui attuazione è rimessa all’iniziativa e alla cooperazione inter-individuale ovvero, in caso di “crisi di cooperazione”, al giudice.

Viceversa, per quanto riguarda il diritto tributario (come delineato nel nostro ordinamento), la funzione amministrativa e il suo svolgimento rappresentano fasi indispensabili dell’attuazione dei tributi.

A ciò consegue che il processo tributario ha struttura “impugnatoria” perché esso si colloca a valle non di una “crisi di cooperazione” inter-individuale, ma di un (asserito) difettoso svolgimento della funzione amministrativa. È questo il dato che determina la legittimità della scelta (altrimenti incomprensibile e, nei fatti, non compresa dalla giurisprudenza che ammette l’impugnazione facoltativa) di limitare l’impugnazione a determinate categorie di atti.

L’elenco degli atti impugnabili, invero, altro non è che una formula indiretta per individuare alcune sequenze attuative, alcuni svolgimenti della funzione amministrativa, all’esito dei quali (espresso dall’emanazione del relativo atto conclusivo) può aprirsi un’eventuale fase contenziosa.

Tutto ciò, ovviamente (almeno a mio avviso), non contrasta affatto con la possibilità di estendere (cum grano salis) interpretativamente l’elenco degli atti impugnabili allorquando si sia dinanzi a moduli procedimentali aventi analoga rilevanza, nei rapporti fra contribuenti e amministrazione, rispetto a quelli espressamente ritenuti “giustiziabili” (attraverso il richiamo al relativo atto conclusivo) e, pur tuttavia, non compresi nell’elenco degli atti impugnabili.

Né, sempre secondo il mio punto di vista, questo modo di concepire e giustificare la struttura impugnatoria (sostanzialmente impugnatoria) è impeditivo della possibilità di affermare che, pur attraverso il filtro dell’atto impugnato, il processo tende a operare (anche) l’accertamento del “merito” della pretesa amministrativa.

Da questo punto di vista, ciò che è importante rilevare è che tale “merito” non coinvolge la “totalità” del c.d. “rapporto tributario” (concetto alquanto impreciso), ma solo quella parte che è rilevante nella prospettiva dell’atto impugnato: cosicché il merito potrà anche riguardare una specifica qualificazione (la residenza, ad esempio), o una particolare posizione soggettiva (l’ammontare delle perdite), o una agevolazione, e così via.

E, da questo punto di vista, il giudizio è di “merito” in quanto non la sentenza non si limita all’annullamento dell’atto impugnato, ma statuisce direttamente sul fondamento della pretesa sostituendo la statuizione del giudice circa la qualificazione, la quantificazione delle perdite, la spettanza dell’agevolazione, a quella operata dall’amministrazione finanziaria.

Se si accetta questa impostazione – la quale, al di là delle preferenze ideologiche individuali, può essere dimostrata sulla base di puntuali riscontri normativi – allora la tesi dell’“impugnazione-merito”, secondo la formulazione appena fornita, impone di negare (al pari di quanto discende dall’adesione all’idea della natura puramente impugnatoria del processo)  l’esattezza dei principi contenuti nell’ordinanza in commento.

3. L’inaccettabilità dei principi affermati dall’ordinanza

In particolare, secondo la tesi dell’“impugnazione-merito” (correttamente intesa) e anche secondo quella che configura il processo tributario come un giudizio di mero annullamento:

(a) la dichiarazione non è un atto avente la mera funzione di determinare il soggetto sul quale incombe l’onere della prova e la sua omissione ha conseguenze di natura sostanziale;

(b) un credito del contribuente che non sia stato esposto in dichiarazione o non sia stato chiesto a rimborso e, come tale, non abbia formato oggetto di un controllo preventivo da parte dell’amministrazione, non può essere dedotto in giudizio per la prima volta, anche perché questo implicherebbe lo svolgimento di una specifica fase istruttoria rispetto alla quale la disciplina del processo si dimostra del tutto insufficiente;

(c) l’amministrazione può contestare l’esistenza di un credito solo nell’ambito dello svolgimento della corrispondente funzione amministrativa (e secondo i relativi termini e modalità), cosicché tale contestazione non può avvenire per la prima volta nel processo anche perché la disciplina processuale non consente l’integrazione dei motivi né alla parte resistente, né alla parte ricorrente;

(d) il contraddittorio non ha natura difensiva, ma è un momento “partecipativo”, ovvero assolve una fondamentale funzione di collaborazione fra le parti nello svolgimento della funzione amministrativa; cosicché, la sua necessità non può essere negata in ragione della possibilità per il contribuente di far valere le medesime ragioni in sede processuale. In mancanza di univoci indicatori normativi, la soluzione relativa alla necessarietà del contraddittorio è, ovviamente, altrettanto non univoca, ma essa dipende esclusivamente dal valore che si intenda dare al principio della collaborazione e della partecipazione del contribuente all’accertamento, a nulla rilevando il distinto problema della difesa del contribuente in giudizio;

(e) al di là di specifici divieti, il giudice non può comunque mai operare una rilevazione officiosa dell’inquadramento fattuale e giuridico dei presupposti della rettifica.

È evidente che questi corollari dell’impostazione prescelta – che, lo ripeto, sono la conseguenza del riconoscimento della centralità della funzione amministrativa nell’attuazione dei tributi – sono del tutto distanti dagli orientamenti prevalenti in giurisprudenza.

Ma questo, a mio avviso, dipende essenzialmente dal fatto che i giudici della Cassazione sono distanti per formazione giuridica e per il momento stesso in cui si colloca il loro sindacato, sia dalla concreta esperienza applicativa dei tributi, sia dalla percezione della rilevanza della fase amministrativa e della relativa disciplina.

Talché essi sono probabilmente convinti veramente che la concezione del processo che essi promuovono con ordinanze come quella in esame costituisca un progresso dal punto di vista della “civiltà giuridica” e non riescono a percepire che, invece, il loro intervento scompagina i principi e aumenta l’incertezza applicativa.

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