IL “CAMUFFAMENTO” DELL’IMPOSTA DI BOLLO SUI PRODOTTI FINANZIARI INGANNA ANCHE L’AGENZIA DELLE ENTRATE
Tempo di Lettura: 4 minutiCommento alla Risposta n. 496 del 2019
1. Gli inganni dell’imposta di bollo sui prodotti finanziari
È opinione largamente condivisa – oserei dire, anzi, unanime – che l’art. 13, comma 2-ter, della Tariffa allegata al d.P.R. n. 642 del 1972 disciplina un’imposta che del “bollo” ha solo il nome, ma non la sostanza.
Una delle voci più autorevoli della dottrina italiana (nonché uno dei migliori conoscitori delle imposte patrimoniali) ha parlato correttamente di un “camouflage” [E. MARELLO, Diseguaglianza, consenso, visibilità: riflessioni sull’introduzione di un’imposta generale sul patrimonio, in Rass. trib., 2014, 1069].
Questo travestimento è, in realtà, abbastanza scoperto e lo denunciano numerosi fattori.
Mi limito a citarne qualcuno: in primo luogo, la proporzionalità del prelievo al valore dei titoli depositati; in secondo luogo, l’irrilevanza, nella disciplina applicativa del tributo, dell’effettivo invio di un estratto conto o, comunque, di altro documento astrattamente suscettibile di integrare il presupposto di un’imposta “cartolare” quale dovrebbe essere quella di bollo (cfr. la nota 3-ter al citato art. 13); infine, l’esigenza avvertita dal legislatore di introdurre un’imposta “gemella” applicabile (specularmente a quanto fatto con duplicando l’altra imposta patrimoniale, cioè l’IMU, con l’IVIE) ai depositi di prodotti finanziari costituiti all’estero, ossia l’IVAFE di cui all’art. 19, commi 18 ss., del d.l. n. 201 del 2011 (fermo restando che l’unicità del presupposto legittimerebbe, a mio avviso, la conclusione per cui, più che di due imposte “gemelle”, si tratta, verosimilmente, di un’unica imposta).
L’analisi minuziosa della disciplina condurrebbe alla scoperta di altri elementi idonei a denunciare il predetto camuffamento, il quale, da un punto di vista pratico, ha un suo non irrilevante significato. Esso serve a creare una “illusione fiscale”.
Se si prendessero in considerazione le imposte patrimoniali sugli immobili, sui prodotti finanziari, sui conti correnti, su autovetture, imbarcazioni e velivoli, sui televisori nonché qualche altra imposta minore e la “componente” patrimoniale implicita nelle imposte sui trasferimenti, nessuno potrebbe dubitare che nel nostro sistema l’imposizione patrimoniale è presente ed anche in termini rilevanti. Eppure, il dibattito sull’imposta patrimoniale che periodicamente si riaccende nei discorsi dei politici e dei tecnici ha quasi sempre ad oggetto la possibilità di introdurre una tassazione patrimoniale (che in realtà c’è già), piuttosto che la modalità di disciplinare, razionalizzandola, la pletora di tributi che incidono sul patrimonio. L’illusione fiscale è appunto questa ed è, come dicevo, una conseguenza non casuale, sebbene non espressamente dichiarata, di un sistema imperniato sulla frammentazione e sul travestimento.
Vi sono però altri effetti, probabilmente non voluti, ma che, nondimeno, costituiscono una chiara conseguenza della divergenza fra la veste formale esteriore e la sostanza. E si tratta di effetti assai meno desiderabili.
2. Il problema della “territorialità”
Uno di questi effetti indesiderabili è ben evidenziato nel caso affrontato dalla Risposta in commento.
La questione che occorreva risolvere era se i prodotti finanziari acquistati da soggetti non residenti, tramite contratti perfezionati all’estero e oggetto di un contratto di deposito concluso a mezzo scambio di corrispondenza fra i relativi titolari e una Banca italiana fossero soggetti all’imposta di bollo di cui al citato art. 13, comma 2-ter, della Tariffa allegata al d.P.R. n. 642 del 192.
Ora, a mio avviso, tale questione è ovviamente suscettibile di risposte diverse a seconda che ci si collochi nella prospettiva di un’imposta patrimoniale o di un’imposta di bollo. Non voglio con ciò dire che necessariamente le risposte cui è dato pervenire seguendo l’una o l’altra prospettiva sono opposte: il punto è che il percorso logico da seguire è del tutto diverso se si tratta di capire i limiti territoriali di applicazione di un’imposta che ha come presupposto la titolarità di un diritto (sui prodotti finanziari), ovvero se il problema di quei limiti investe un’imposta sulla documentazione dei rapporti negoziali.
Nel primo caso il punto centrale da risolvere è la rilevanza (nella struttura dell’imposta) della residenza del titolare del diritto, nel secondo caso è decisiva la vicenda formativa dell’atto o il rapporto negoziale presupposto.
Dalla lettura della Risposta si comprende chiaramente che l’Agenzia ha ragionato facendo riferimento esclusivamente alla forma esteriore dell’imposta, senza attribuire alcuna importanza al suo reale presupposto.
Questo, a mio avviso, non costituisce solo un errore di metodo (per le ragioni già dette), ma è pregiudizievole per la stessa razionalità del prelievo, perché accentua la divaricazione fra la “maschera” e il “volto” rendendo la prima sempre meno coerente con il secondo.
Da questo punto di vista, credo sia necessario richiamare alla mente il fatto che uno degli insegnamenti più importanti che si possono trarre dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 2015 è che la coerenza nella struttura complessiva di ogni tributo è elemento essenziale al fine di assicurarne la legittimità costituzionale.
La sentenza, più nota per l’aver apposto un limite alla retroattività della dichiarazione di incostituzionalità del tributo, meriterebbe di essere maggiormente valorizzata per ciò che dice sul “dover essere” di ogni disciplina impositiva. In particolare, il punto centrale di tale sentenza è il rilievo secondo cui la ratio dell’imposta «deve essere coerentemente, proporzionalmente e ragionevolmente tradotta nella struttura dell’imposta» cosicché la declaratoria di illegittimità costituzionale dipese, in quell’occasione, dall’accertamento del fatto che vi era una «incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo».
Cosicché ogni interpretazione che, nell’individuare la soluzione ai problemi della disciplina dell’imposta di bollo sui prodotti finanziari, si concentra sulla veste esteriore, piuttosto che sulla sua ratio ha l’effetto di elevare il grado di “incongruità” fra struttura e presupposto e, quindi, espone il tributo a una più facile eccezione di legittimità costituzionale.