L’AGENZIA RIVOLUZIONA (CONSAPEVOLEMENTE?) LA DISCIPLINA DELLA DIVISIONE AI FINI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
Tempo di Lettura: 6 minutiCommento alla Risposta n. 526 del 2019
1. Un po’ di storia
Probabilmente, si è persa la memoria di ciò che sta a monte dell’attuale disciplina della divisione della comunione ai fini dell’imposta di registro. È opportuno, allora e per meglio comprendere il carattere rivoluzionario di questa Risposta a interpello, ripercorrere brevemente la sua storia (l’esposizione e la critica analitiche di questa vicenda sono esemplarmente trattate da B. Toti, Comunione e masse comuni plurime, Milano 2009).
Fino al 1947 nel diritto tributario al pari del diritto civile la nozione di “masse plurime” era sconosciuta. Questo consentiva di operare una sola divisione di comunioni di beni derivanti da titoli diversi e così, in ipotesi, assegnare a un condividente l’intera proprietà del bene acquistato in comunione con un primo titolo e assegnare all’altro condividente l’intera proprietà di altro bene acquistato con un titolo successivo.
Questa possibilità si prestava a manovre elusive (cfr., sul punto S. La Rosa, Sul trattamento fiscale della divisione di più comunioni, in Riv. dir. fin., 1963, II, 323): basti pensare, ad esempio, al caso in cui due comunisti, già comproprietari di un immobile, avessero deciso di acquistare in comunione alcuni titoli di stato per poi procedere all’assegnazione all’uno dell’intera proprietà dell’immobile e all’altro dell’intera proprietà dei titoli di stato (immediatamente monetizzabili). In tal modo essi sarebbero riusciti a realizzare la divisione senza assoggettarla (formalmente) alla più onerosa disciplina dei conguagli, ancorchè tali conguagli fossero (sostanzialmente) presenti.
In questo scenario, la Corte di Cassazione con una prima sentenza (la n. 1556 del 30 agosto 1947) “inventò” (è proprio il caso di dirlo) la nozione delle masse plurime la quale, come diremo meglio fra breve, obbliga, se si vuol tener ferma la tassazione con la più mite aliquota dell’1%, ad operare le divisioni solo “all’interno” di ciascuna singola masse, giacchè la divisione unitaria di tutte le masse non è considerata come una vera divisione, ossia è ritenuta caratterizzata da un effetto traslativo e non meramente dichiarativo.
Tanto era forte l’idea dell’inesistenza di plurime masse che la stessa amministrazione finanziaria per lungo tempo si rifiutò di seguire il nuovo orientamento giurisprudenziale che però andò consolidandosi e, infine, trovò l’avallo della sentenza resa a Sezioni Unite nel 1961 (Cass., SS.UU., 18 ottobre 1961, n. 2224).
Cosicché, poi, lo stesso legislatore vi si adeguò anche se, è bene notarlo, con una certa resistenza e in una versione, per così dire, comunque “edulcorata” (cfr. F. Formica, Divisione (diritto tributario), in Dig. IV, Dir. Priv., Sez. Comm, V, Torino 1990, 87 ss.).
Infatti, la formula adottata dall’art. 34 del d.P.R. n. 131 del 1986 (che corrisponde sostanzialmente a quella precedente):
per un verso, non afferma espressamente che alla pluralità dei titoli corrisponde una pluralità di masse, ma si esprime in termini negativi, ossia escludendo che vi sia una pluralità di masse (solo) se l’ultimo acquisto in comunione fra i medesimi comunisti deriva da una successione per causa di morte (il che consente comunque di pervenire alla conclusione secondo cui una pluralità di titoli corrisponde a plurime massime ancorché attraverso un ragionamento a contrario);
per altro verso, proprio nella misura in cui pone la regola secondo cui la massa è comunque unica, anche se derivante da più titoli, là dove l’ultimo acquisto sia avvenuto per successione mortis causa, mitiga, come avevamo anticipato, il rigore del citato orientamento giurisprudenziale il quale, strettamente inteso, non legittima tale conclusione (implicando, anzi, che quanto pervenuto in comunione per causa di morte costituisca una nuova e ulteriore massa comune).
Cosicché, almeno negli ultimi sessant’anni, la soluzione giurisprudenziale, ancorché criticata da larga parte della dottrina proprio nei suoi fondamenti civilistici, è divenuta “diritto vivente” non solo per i tributaristi, ma anche e soprattutto nel diritto civile; implicando anche un non del tutto apprezzabile adeguamento delle formule e delle tecniche dei negozi divisionali.
Un punto essenziale per comprendere tale disciplina è il seguente.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale citato, i negozi di scioglimento di comunioni costituenti masse distinte avrebbero un carattere bifasico: nella prima fase i comunisti costituirebbero la massa unica “fondendo” le più masse precedentemente esistenti; nella seconda fase essi procederebbero alla divisione dell’unica massa così costituita. Affermavano, infatti, le Sezioni Unite della Cassazione nel 1961 che allorquando si tratti di «beni provenienti da titoli diversi (ipotesi di masse plurime), l’operazione di divisione abbia importato due momenti: quello della riduzione dei diritti vantati da ciascun condividente al minimo comun denominatore (momento della fusione della masse) e quello dell’assegnazione sull’unica massa, così ottenuta e considerata unica, in rapporto alle nuove frazioni».
È importante segnalare questo punto perché, secondo questa prospettiva, il vero e proprio carattere traslativo (dal quale dipenderebbe l’esclusione della più mite aliquota propria della divisione) sarebbe individuabile non già al negozio divisionale (che rimarrebbe sempre tale), ma al preliminare negozio di “fusione” delle plurime masse preesistenti.
2. La novità della Risposta n. 526 del 2019.
L’aver richiamato alla memoria l’elaborazione giuridica che giustifica l’attuale disciplina della divisione e, in particolare, di quella avente a oggetto masse plurime, dovrebbe essere sufficiente a chiarire quanto innovativa – se non, addirittura, rivoluzionaria – sia la Risposta n. 526 del 2019.
L’istante chiedeva di sapere quale fosse il regime, ai fini dell’imposta di registro, di una divisione “unitaria” di due distinte masse nel caso in cui queste fossero, anteriormente, “unificate” per mezzo di un distinto atto di costituzione volontaria di comunione.
Ovviamente, in questa sede, non possiamo occuparci della legittimità dell’atto di costituzione volontaria della comunione, dal punto di vista civilistico. Al riguardo, ci limitiamo a rilevare che, secondo la dottrina, esistono molti dubbi circa l’effettiva validità di un simile atto.
Ciò che rileva, ai nostri fini, è che, a ben guardare, tale atto non sarebbe altro che l’“esplicitazione” della prima di quelle due fasi in cui, secondo le Sezioni Unite della Cassazione, si articolerebbe necessariamente la divisione “unitaria” delle masse plurime e che, secondo tale prospettiva indiscussa per oltre mezzo secolo e fatta propria dall’art. 34 t.u.r., determinerebbe (o concorrerebbe a determinare il carattere non più dichiarativo, ma traslativo di tale specie di divisione.
Vi è di più, nel 1961, quando la Corte di Cassazione elaborò tale teoria, mancava nel nostro ordinamento la nozione di masse plurime e giustamente essa poteva considerarsi una creazione giurisprudenziale.
Tuttavia, dal 1972 in poi tale nozione, almeno ai fini dell’imposta di registro, ha trovato un espresso riconoscimento legislativo e, se si muove dal dato normativo costituito dall’ultimo comma dell’art. 34 cit., l’unico caso normativamente previsto in cui «agli effetti del presente articolo» le «comunioni che trovano origine in più titoli» possono essere considerate come un’unica massa è quello in cui «l’ultimo acquisto di quote deriva da successione a causa di morte».
Cosicché, lo stesso art. 34 cit. sembra negare che, quantomeno ai fini dell’imposta di registro, si possano avere altri titoli idonei a far considerare unitariamente la massa diversi da quello ivi espressamente contemplato (ossia l’acquisto mortis causa).
Non basta.
Sempre argomentando dall’art. 34 u.c. del t.u.r., sembra agevole concludere che l’effetto della “fusione” delle masse plurime è, comunque, fenomeno che può coinvolgere solo le masse esistenti «tra i medesimi soggetti». Nel caso esaminato dall’Agenzia delle Entrate nella Risposta in commento era pacifico, invece, che le due comunioni intercorressero fra soggetti diversi. Si trattava, quindi, di masse non suscettibili di “fusione” nemmeno nell’unico caso in cui tale vicenda risulta disciplinata dall’art. 34 (ossia quando l’ultimo acquisto in comunione avviene per successione mortis causa).
A queste considerazioni, che attestano l’assoluta innovatività della soluzione cui è pervenuta l’Agenzia, si deve aggiungere un’ulteriore osservazione.
L’Agenzia, oltre a ritenere possibile la “fusione” delle masse plurime (fra soggetti diversi e per effetto di un titolo diverso dall’unica vicenda “unificatrice” contemplata dall’art. 34 cit.) ha affermato che l’atto di costituzione volontaria di divisione sarebbe soggetto a imposta proporzionale dell’1% previsto dall’art. 3 della Tariffa, Parte I, allegata al t.u.r.
E tale conclusione è giustificata solo attraverso la suggestiva immagine secondo cui l’atto costitutivo di comunione volontaria dispiegherebbe meri effetti dichiarativi in quanto costituente il “reciproco” di un atto di divisione.
A questo proposito, è bene osservare, però, che, anche prescindendo da più impegnative considerazioni in merito alla nozione degli atti meramente dichiarativi, una volta che si prenda atto che l’atto costitutivo della comunione svolge un ruolo meramente propedeutico al successivo atto di divisione, non si può sfuggire alla seguente alternativa.
O tale atto è meramente riproduttivo di una situazione già esistente e, allora, esso non svolge alcuna utilità ai fini della successiva divisione, cosicché esso non sarebbe comunque necessario.
Oppure tale atto è effettivamente necessario al fine di pervenire all’unificazione delle plurime masse, ma allora esso non può essere meramente dichiarativo.
Detto diversamente, il negozio divisionale è considerato dichiarativo perché non svolge altra funzione che quella concentrare su un singolo bene della comunione il diritto che, in astratto e per quota, ciascun condividente aveva sulla massa.
Quindi, considerando l’atto costitutivo di comunione volontaria come il “reciproco” dell’atto di divisione, si dovrebbe dire che esso non fa altro che determinare la quota di cui ciascun comunista è già titolare rispetto alle plurime masse. Il che, tuttavia, equivale a dire che quelle masse non sono plurime.
E, in questo modo, si contraddice radicalmente l’orientamento costantemente seguito fin da quei remoti precedenti giurisprudenziali e fatto proprio dall’art. 34 t.u.r.
In questa sede, non vogliamo e non possiamo, ovviamente, cimentarci nel compito di stabilire se questo nuovo approccio sia più corretto di quello delineato dalla giurisprudenza (che, come abbiamo pure detto, non è mai andato esente da critiche).
Non possiamo fare a meno di evidenziare, però, che la soluzione delineata si risolve in una interpretatio abrogans dell’art. 34 t.u.r. e che, se tale orientamento fosse destinato a consolidarsi, il tema delle masse plurime è destinato a rimanere ciò che gli anglosassoni chiamano law in the books, ma risulterebbe, sostanzialmente, eliminato nell’ambito della law in action.