LE CLAUSOLE DI “MINIMO GARANTITO” E L’IVA (CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLE CLAUSOLE “TAKE OR PAY”)

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Osservazioni sulla risposta a interpello n. 627 del 2020


1. Premessa

La non più recentissima risposta a interpello n. 627 del 2020 si è occupata del regime, ai fini i.v.a., della clausola di “minimo garantito”.

La soluzione prospettata è che, nel caso di specie, il minimo garantito fosse il corrispettivo di un’autonoma prestazione di garanzia.

La tesi costituisce un ottimo spunto di analisi.

In primo luogo, essa induce a interrogarsi, più che sulla sua correttezza rispetto al caso esaminato, sulla sua validità in senso assoluto. Infatti, come cercherò di evidenziare, la tipologia di queste clausole è varia. Conseguentemente, essa non può essere ricondotta, ai fini i.v.a., ad una disciplina unitaria.

In secondo luogo, sembrerebbe imporsi l’esigenza, quasi come necessaria conseguenza della precedente riflessione, di sviluppare un’ulteriore prospettiva di analisi. Emerge, cioè, quantomeno l’opportunità di approfondire ulteriormente il tema, per altro ben noto, della nozione di “operazione” ai fini dell’i.v.a.

2. Alcune precisazioni preliminari

Innanzi tutto, è opportuno partire da una chiara delimitazione dell’oggetto dell’indagine. Occorre quindi precisare che, in generale, con il nome di minimo garantito si indicano alcune clausole che attengono alla determinazione del prezzo. In particolare, si tratta delle clausole in cui la quantificazione del prezzo è parzialmente condizionata al verificarsi di una determinata circostanza.

Questa definizione richiede alcune precisazioni.

In primo luogo, è inutile dire che, nella prospettiva delineata, non si ha una clausola di minimo garantito se il prezzo è interamente condizionato. È questo un dato di per sé evidente. Se l’intero prezzo è dovuto o varia solo al verificarsi di una condizione, non vi è alcuna “garanzia” di un minimo.

In secondo luogo, si deve puntualizzare che, in base alla definizione fornita, la condizione può essere espressa in termini sia positivi, sia negativi.

Si può prevedere che il prezzo è X, ma può diventare Y (maggiore di X) se si verifica la condizione. Oppure si può stabilire che il prezzo è Y, ma diventa X (minore di Y) se non si verifica la condizione. La diversa formulazione non incide, di per sé stessa, sulla riconducibilità della clausola alla categoria in esame.

Vi è, poi, un’ultima precisazione.

Secondo la definizione data, le clausole di minimo garantito attengono alla determinazione del corrispettivo. Ma il regime i.v.a. di un corrispettivo è assai semplice. Esso concorre alla determinazione della base imponibile (ai sensi dell’art. 13 del d.P.R. n. 633 del 1972) di un’operazione rilevante ai fini dell’imposta. Cosicché, a rigore, non avrebbe alcun senso interrogarsi sul regime i.v.a. delle clausole di minimo garantito.

Il problema si pone, però, in quanto la previsione di una clausola di minimo garantito potrebbe essere ritenuta indice del fatto che la controprestazione è “composita”. La variabilità del prezzo (a causa della condizione) potrebbe considerarsi, cioè, conseguente al fatto che esso remunera (non una, ma) più controprestazioni.

Ed il problema diventa rilevante se le plurime controprestazioni sono soggette a regimi i.v.a. differenziati. Innanzi tutto, sotto il profilo dell’imponibilità, ma anche dal punto di vista dell’aliquota, della territorialità, del momento impositivo ecc.

3. Il ruolo della condizione nelle clausole di minimo garantito

L’assunto secondo cui le clausole di minimo garantito possono essere indicative della natura “composita” della controprestazione, merita di essere precisato.

L’indicatore di tale natura della controprestazione non è la variabilità del corrispettivo. Esso deve individuarsi, piuttosto, nell’evento dedotto in condizione. Cioè nella circostanza il cui verificarsi (o il cui mancato verificarsi) incide sulla quantificazione del prezzo.

È pacifico, invero, che la previsione di una condizione è indicativa dell’esistenza di un interesse specifico delle parti. Tramite l’inserzione di una condizione, infatti, le parti valorizzano un interesse specifico o, addirittura, ulteriore.

Occorre allora vedere come la valorizzazione di tale interesse specifico o ulteriore reagisce sull’individuazione della prestazione remunerata dal corrispettivo contrattuale.

E questa verifica dovrebbe condursi per ciascun tipo di clausola.

Un’indagine su questo tema richiederebbe, quindi, l’esame e la tipizzazione di tutte le possibili clausole di minimo garantito per giungere una loro compiuta tassonomia.

Si tratta di un’impresa evidentemente impossibile essendo innumerevoli i modi in cui il prezzo può essere parzialmente condizionato al verificarsi di un evento.

L’esame che segue sarà inevitabilmente privo di ogni pretesa di esaustività. Esso dovrebbe risultare, comunque, sufficientemente indicativo.

4. I diversi tipi di condizione rilevanti nelle clausole di minimo garantito.

I) Una prima specie di clausole di minimo garantito è quella in cui la condizione incide (direttamente o indirettamente) sulla diversa “quantità” della controprestazione. Le parti, cioè, stabiliscono che venga resa una certa prestazione per il prezzo di X. Se si verifica una determinata circostanza, la prestazione sarà quantitativamente maggiore e il prezzo diventerà Y.

Un esempio tipico, fra i tanti, è quello dell’appalto in cui sia previsto un prezzo fisso e invariabile salvo l’incremento legato a particolari e imprevedibili difficoltà nell’esecuzione dell’opera.

II) Un’altra specie di clausole di minimo garantito è quella in cui l’evento dedotto in condizione riflette o evidenzia una diversa “qualità” della controprestazione.

L’ipotesi, per rendere più chiaro il concetto appena espresso, è quella dei contratti di cessione di partecipazione con la previsione di un earn out; dei contratti di prestazioni professionali con la previsione di un corrispettivo fisso e di una success fee; dei contratti di affitto di azienda con un corrispettivo parzialmente legato al fatturato, ecc.

In tutti questi casi, la controprestazione è esattamente determinata quanto all’oggetto e alla quantità. Il corrispettivo varia solo in dipendenza di una circostanza (l’andamento della società le cui partecipazioni sono oggetto di trasferimento, il buon esito della prestazione professionale, la redditività dell’azienda, ecc.) che attiene, in definitiva, a un variabile apprezzamento di una qualità della controprestazione medesima.

III) Assai numerose, poi, sono le clausole in cui l’elemento condizionale è costituito da un indice di mercato. Il caso più ricorrente è quello dei finanziamenti con un tasso variabile legato un indice (p.es. l’EURIBOR) con un floor. Ma gli esempi sono, in realtà, numerosissimi.

IV) L’evento dedotto in condizione può essere costituito, infine, dalla condotta (omissiva o commissiva) dello stesso soggetto obbligato al pagamento del prezzo.

Anche in questo caso può possono essere utili alcune esemplificazioni.

Un’ipotesi particolarmente nota nel mercato dell’energia (e specialmente del gas) è quella delle clausole take or pay. Il soggetto che vende e trasporta il gas si obbliga a fornirne determinate quantità. L’acquirente si obbliga (i) a pagare un certo prezzo se acquista l’intera fornitura, ovvero (ii) a pagare comunque un prezzo minimo se non l’acquista. La condotta (omissiva, in questo caso) non integra un’ipotesi di inadempimento in quanto rappresenta l’esercizio di una facoltà contrattuale. Conseguentemente, non sussistendo l’inadempimento, il minimo garantito deve qualificarsi quale (componente del) prezzo e non alla stregua di una penale.

Altrettanto nota – anche perché oggetto di importanti pronunce della Corte di Giustizia UE – è l’ipotesi, poi, dei contratti di telefonia mobile. Si tratta dei casi in cui al cliente è riservato un certo prezzo se la durata del contratto raggiunge una soglia minima. Se il cliente recede dal contratto prima del tempo prefissato, deve pagare una somma aggiuntiva rispetto a quella già corrisposta.

Il che, a ben vedere, non è molto diverso dalla clausola take or pay.

La clausola opera, in un caso, anche se l’acquisto di gas non raggiunge la soglia concordata; nell’altro, anche se il rapporto non raggiunge la durata prefissata.

Anche nel secondo caso appare escluso l’inadempimento. E, infatti, la Corte di Giustizia ha qualificato la somma dovuta come prezzo e non come penale (cfr. CGUE, sent. 11.6.2019, Vodafone Portugal, C-43/19).

5. Gli interessi tutelati dalle diverse forme di condizionalità del prezzo

Tutti questi modi di atteggiarsi delle clausole di minimo garantito evidenziano effettivamente diverse specifiche conformazioni degli interessi delle parti nell’ambito della regolamentazione del rapporto contrattuale.

È palese, però, che non tutti i tipi di clausola passati in rassegna sono ugualmente problematici.

Questo perché l’interesse tutelato dalla condizione inserita nella clausola di determinazione del prezzo può coincidere o essere del tutto omogeneo con quello alla controprestazione.

Ciò è palese rispetto ai primi due tipi di clausole (cfr., §§. 4.I e 4.II).

I) Nel primo caso, infatti, il corrispettivo è sempre commisurato alla “quantità” della cessione di beni o prestazione di servizi. Solo che l’incremento di tale quantità non è misurata puntualmente. Piuttosto, le parti stabiliscono che siano rilevanti (come incrementi) solo quelli legati a determinate circostanze. Non vi è dubbio, tuttavia, che ad essere remunerata sia sempre e comunque l’unica prestazione contrattualmente prevista.

II) Praticamente identica è la situazione nel secondo caso. Anzi, in questa ipotesi non varia neppure la prestazione in relazione alla quale è stabilito il corrispettivo. Ciò che varia è l’apprezzamento contrattuale del suo valore che le parti collegano al verificarsi di una situazione di fatto successiva.

In nessuno dei due tipi di clausole la presenza della condizione è, pertanto, indice della natura composita della prestazione.

Più complesse sono le altre due ipotesi.

III) Nel caso del prezzo variabile in funzione di un indice di mercato, salvo un floor (cfr., § 4.III), si deve, probabilmente, distinguere.

Nei contratti puramente finanziari, si ritiene che la presenza del floor implichi la coesistenza, nello stesso rapporto, di un finanziamento e di un derivato.

In questo caso, quindi, potrebbe davvero affermarsi la natura composita della “prestazione” oggetto di remunerazione.

Rispetto ai contratti privi di natura finanziaria, l’analisi richiederebbe una verifica relativa alle singole clausole.

Conseguentemente, il discorso non può che essere generale e di larga massima, in quanto è evidentemente impossibile estendere in tal modo la verifica.

E, in linea generale, non convince l’ipotesi che simili clausole siano costantemente o prevalentemente indicative della presenza di un contratto derivato a fianco della prestazione principale.

Invero, crederei pacifica l’esistenza di una sola prestazione nei casi di prezzo del contratto totalmente indicizzato. Cioè nelle ipotesi in cui tutte le variazioni dell’indice si riflettono sul prezzo.

Rispetto a tali contratti, quelli con un minimo garantito presentano una sola particolarità. Essa consiste in ciò, che le variazioni dell’indice rilevano solo ai fini dell’incremento del prezzo e non ai fini del suo decremento.

Ma questa limitata rilevanza dell’indicizzazione non mi pare elemento sufficiente a distinguere questi contratti da quelli in cui l’indicizzazione è totale.

Sembrerebbe difficile, in altri termini, che solo l’indicizzazione parziale sia espressiva dell’esistenza di una pluralità di prestazioni.

Certamente la presenza o l’assenza di clausole di indicizzazione e la loro natura parziale o totale incide sull’alea (economica) del contratto. Ma non dovrebbe modificarne l’oggetto.

Vi è, infine, una considerazione ulteriore che riguarda sia i contratti finanziari, sia quelli non finanziari.

È certo ammissibile che la presenza di un floor possa considerarsi indicativa, almeno in teoria e in certi casi, della natura composita della controprestazione. Ma questo dato non sembra sufficiente per concludere che, ai fini i.v.a., le più prestazioni siano tutte “principali”.

Sul punto, mi riservo di tornare, però, fra breve (cfr. § 7).

IV) Anche con riguardo alle clausole dell’ultimo tipo (cfr. § 4.IV) è giusto premettere che l’estrema varietà della realtà impedisce di esprimere giudizi aventi validità universale.

Nondimeno, anche in questo caso, sembrerebbe possibile affermare che l’elemento condizionale proprio di tali pattuizioni non implica la natura “composita” della prestazione. A questa conclusione si perviene, però, attraverso un ragionamento in parte diverso da quelli precedenti.

Si deve muovere, cioè, dalla considerazione che gli assetti negoziali in cui si rinvengono tali clausole sono normalmente riconducibili al tipo del contratto di somministrazione.

Al di là della loro “tipizzazione” normativa, questi contratti hanno, cioè, una caratteristica comune. Ed è che la prestazione del fornitore non si limita a una serie di cessioni di beni o di prestazioni di servizi.

In realtà, come l’interesse del somministrato è la soddisfazione di un fabbisogno continuativo, così la prestazione del somministrante consiste anche nell’impegnare la propria capacità operativa futura.

Così stando le cose, le clausole di minimo garantito appaiono, allora, quale profilo connaturato e logicamente conseguenziale dell’assetto contrattuale.

Nel nostro ordinamento, ciò trova espressione nell’art. 1560 c.c. Questa disposizione civilistica stabilisce che il minimo garantito (costituito dal fabbisogno “impegnato”) è una regola base del rapporto di somministrazione. Ma è evidente che si tratta di una regola che codifica l’esperienza comune.

Cosicché, la previsione della medesima regola a livello contrattuale deve considerarsi comunque una logica conseguenza della struttura negoziale anche se manca una tipizzazione legale.

Senza voler invadere il campo dei civilisti, sembrerebbe possibile affermare che, senza questa clausola, nell’assetto negoziale risulterebbe presente un elemento di aleatorietà (giuridica, questa volta). Un elemento che è, normalmente, estraneo alla realtà dei rapporti economici propri di queste fattispecie negoziali. Si conferma, così, il carattere strutturale, in queste fattispecie, delle clausole di minimo garantito in quanto funzionali alla preservazione dell’equilibrio contrattuale tipico.

Questo dato esclude, a mio avviso, che si possa parlare di una pluralità di prestazioni. L’interesse soddisfatto è assolutamente unitario e, quindi, è unitaria anche la prestazione che lo soddisfa.

Ovviamente, resta impregiudicato, in questo quadro, la determinazione della natura, ai fini dell’i.v.a., della prestazione del somministratore. Occorre ancora stabilire, cioè, se essa sia una generica prestazione di servizi oppure una cessione di beni o prestazione di servizi specifica.

E questo è un ulteriore spunto di riflessione offerto dal tema in esame che sarà esaminato al § 7.

6. Una prima conclusione sulla validità generale della Risp. n. 627 del 2020

Il ragionamento svolto ci porta a un primo risultato in ordine alla soluzione prospettata nella Risp. n. 627 del 2020.

Come si è anticipato, mi pare corretto prescindere da ogni valutazione circa la correttezza della soluzione data al caso specifico. E questo in quanto tale giudizio richiederebbe una conoscenza maggiormente approfondita delle circostanze di fatto alla base dell’istanza di interpello.

La questione è, piuttosto, quella di stabilire se la soluzione ivi indicata, in ipotesi valida per il caso prospettato dall’istante, possa avere anche valore generale.

A questo riguardo, le considerazioni appena svolte dimostrano, innanzi tutto, che, di norma, le clausole di minimo garantito non sono indicative dell’esistenza di più prestazioni.

E questo conduce a ritenere che la soluzione prospettata nella risposta a interpello in esame possa essere estesa ad altre ipotesi solo con molta circospezione.

Anzi, in linea di principio, si è portati a dire che la soluzione normale è esattamente opposta a quella delineata nella Risp. n. 627 del 2020.

7. Spunti circa la nozione di operazione ai fini dell’i.v.a.

Fissato questo punto, vi è poi, come specificato in premessa, un’ulteriore riflessione sollecitata dalla casistica esaminata.

Nella somministrazione, come abbiamo visto, l’obbligazione del somministrante non è costituita solo da una serie di cessioni di beni o di prestazioni di servizi. Essa comprende anche la messa a disposizione della capacità produttiva futura.

Avendo escluso la distinzione delle prestazioni, si deve concludere che esse debbano essere considerate unitariamente.

L’unitarietà sarebbe determinata dal fatto che esse risulterebbero così «strettamente collegate da formare, oggettivamente, un’unica prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale» (cfr., CGUE sent. 27.10.2005, Levob Verzekeringen e OV Bank, C‑41/04).

In questo caso, secondo la Corte di Giustizia, le due prestazioni inscindibilmente unite potrebbero essere (i) entrambe principali, (ii) oppure una principale e l’altra accessoria.

Nel caso della somministrazione, paradossalmente, non sembra ricorrere nessuna delle due ipotesi.

A) Non ricorre, in primo luogo, l’ipotesi della principalità di tutte le prestazioni riunite nell’«unica prestazione indissociabile». Sembrerebbe escluso, infatti, che abbiano carattere di principalità sia le cessioni di beni o le prestazioni di servizi, sia l’impegno della capacità organizzativa del somministrante.

Per rendersene conto, occorre ricordare che, il carattere principale di tutte le prestazioni indissolubilmente unite conduce a qualificare l’intera operazione come prestazione di servizi generica.

Alla stregua dal diritto positivo, questa conclusione, però, certamente non vale per la somministrazione.

Le cessioni di beni effettuate in base a un contratto di somministrazione restano, infatti, soggette al regime delle cessioni di beni. Vi è solo una parziale deviazione da questo principio relativamente al momento impositivo (art. 6, comma 2, lett. a, del d.P.R. n. 633 del 1972). Ma certo le cessioni di beni poste in essere in esecuzione di contratti di somministrazione di beni restano qualificate come tali ai fini della territorialità, degli eventuali regimi di esenzione ecc.

Pertanto, anche che nel caso della somministrazione di servizi la qualificazione rilevante – p.es. relativamente alla natura finanziaria, assicurativa ecc. – resterà comunque determinata dalle singole prestazioni.

B) Non ricorre neppure la seconda ipotesi. Infatti, il rapporto di accessorietà presuppone che le prestazioni diverse dall’unica principale non costituiscano per il cliente «un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire al meglio del servizio principale offerto dal prestatore» (cfr., CGUE, sent. 25.2.1999, CPP, C‑349/96).

È però difficile sostenere che tale rapporto si realizzi nella somministrazione.

Invero, l’obbligo ad impegnare la capacità produttiva del somministrante non è, per il somministrato, meramente funzionale alla miglior fruizione della prestazione principale.

Sembrerebbe esservi, quindi, un’operazione unitaria (nell’accezione elaborata dalla Corte di Giustizia), ma non perfettamente riconducibile ad alcuna delle due specie in cui tale categoria si articola.

Il che conduce a interrogarsi se le plurime prestazioni possano formare un insieme inscindibile solo secondo una delle due modalità considerate dalla Corte di Giustizia. Ovvero, spinge a chiedersi se non vi siano altre relazioni possibili al di fuori delle due prima indicate.

E, a mio avviso, è tutt’altro che esclusa la possibilità di prevenire a una nozione di accessorietà, se non distinta, quantomeno più elastica. Una nozione, cioè, idonea a ricomprendere, oltre ai casi in cui una prestazione ha un ruolo meramente “servente” rispetto ad un’altra, anche quelli in cui fra le più prestazioni vi è una reciproca interdipendenza o complementarità.

Nel caso della somministrazione l’impegno della capacità produttiva del fornitore non è strumentale al miglior godimento della cessione di beni o prestazioni di servizi. E, nondimeno, non è neppure il fine in sé del somministrato. Perché, senza le singole prestazioni, quest’ultimo non avrebbe alcun interesse ad impegnare la capacità produttiva del somministrante.

Ma vale anche l’affermazione reciproca. La stessa cosa può cioè dirsi a proposito delle cessioni di beni o delle prestazioni di servizi continuative. Anche esse non sono strumentali al miglior godimento dell’impegno della capacità produttiva del fornitore. Nondimeno, esse non rappresentano il fine in sé del contratto. Perché questo non sarebbe concluso se non assicurasse al somministrato la soddisfazione continuativa del proprio fabbisogno.

L’ipotesi di un concetto di accessorietà più flessibile giustifica altresì l’osservazione già svolta circa le clausole di prezzo collegato a un indice di mercato salvo un floor.

Al riguardo, avevo notato che, pur ammettendo che l’indicizzazione denoti una duplicità di prestazioni, sarebbe difficile considerarle davvero entrambe “principali”.

Pur ammesso, cioè, che la concessione di un mutuo a tasso variabile con un floor rifletta l’esistenza anche di un derivato, sembrerebbe corretto pensare, ancora una volta, ad un rapporto di accessorietà, per così dire, “bilaterale”. Questo in quanto nessuna delle due operazioni è davvero principale e nessuna è davvero servente rispetto all’altra.

Il dubbio prospettato a proposito della possibilità di adottare una nozione di accessorietà più ampia e flessibile ha, quindi, una sua ragion d’essere.

Ma la questione, almeno in questa sede, non può che rimanere uno mero spunto di riflessione sul quale si potrà ritornare a ragionare anche seguendo le future suggestioni della casistica.

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