Le Sezioni Unite e la decadenza: una sentenza che farà danni
Tempo di Lettura: 6 minutiCommento a Cass. SS.UU., 25 marzo 2021, n. 8500
1. Gli effetti collaterali
Chiunque ha pratica di contratti di cessione di partecipazioni sociali o di azienda si è invariabilmente trovato dinanzi a clausole di questo tenore: «Gli obblighi di indennizzo del Venditore in relazione a qualsiasi violazione delle Dichiarazioni e Garanzie in materia di Imposte saranno efficaci fino al trentesimo giorno successivo alla scadenza del relativo termine di prescrizione o decadenza applicabile ai sensi di legge».
Era, questa, una clausola piuttosto “pesante” perché, mentre le altre garanzie normalmente vengono a cessare dopo un paio d’anni, quest’ultima esponeva il venditore agli obblighi di indennizzo – assistiti spesso da una congrua fideiussione – per 4 o 5 anni se non, addirittura, per il doppio.
Diciamo “era” perché quella durata – evidentemente molto penalizzante anche per una società virtuosa (visto che l’acquirente la pretende, giustamente, in ogni caso) – da oggi in poi sembrerà breve, giacché la sentenza sulla quale intendiamo svolgere qualche riflessione ha esteso di molti anni, in alcuni casi, forse, sine die, la durata di quelle garanzie.
Ma c’è di più!
Siccome la Cassazione, anche a Sezione Unite, non crea il diritto, ma si limita a interpretarlo per quel che – a suo parere – esso è, l’interpretazione fornita dalla sentenza n. 8500/2021 vale anche per i termini “in corso”.
Cosicché, per un verso, venditori di partecipazioni societarie poste in essere 5 anni or sono e che ritenevano che, a breve, si sarebbero finalmente alleggeriti degli obblighi di garanzia, devono prendere tristemente atto che questi obblighi resteranno a loro carico per molto, tanto tempo; per altro verso, gli acquirenti che qualche mese or sono avevano restituito le fideiussioni rilasciate dai loro venditori pensando che il rischio garantito fosse venuto meno, si trovano adesso sprovvisti di adeguata protezione (ed è facile immaginare cosa penseranno questi ultimi del nostro sistema giuridico specie se, come spesso capita, sono investitori stranieri).
Questo è un effetto “collaterale” della sentenza in commento.
Forse fra i più macroscopici, perché a volte peserà sulle compravendite di partecipazioni per cifre importantissime, ma certo non l’unico.
E si tratta di effetti – dei quali è ovviamente impossibile fare un elenco – che incideranno in modo determinante e per molto tempo, non solo sulla mera tax compliance, ma sul tessuto economico nel suo complesso.
2. Il vizio di fondo
Qualcuno potrebbe obiettare che di tali effetti si deve far carico il legislatore, non i giudici i quali non possono far altro che “dichiarare” il diritto per quel che esso è, senza lasciarsi influenzare dalle conseguenze.
Che una simile obiezione sia intrinsecamente debole, è constatazione che balza immediatamente agli occhi.
Diremo solo, per non dilungarci in cose che tutti sanno, che le interpretazioni non si giudicano con il parametro della “verità”, ma con quello della “bontà” o, se si vuole utilizzare un termine più impegnativo, della “giustizia”.
Nessuna interpretazione, infatti, è vera in assoluto, perché il diritto è “argomentazione”, è “retorica”; e argomentativamente si possono giustificare molti significati diversi di un medesimo testo o di un medesimo sistema di norme.
La preferenza non deve essere quindi attribuita alla argomentazione che (sembra) più logica, ma a quella che risulta più congrua rispetto al problema che il diritto (globalmente inteso) intende risolvere.
L’interprete può aspirare – anzi, deve aspirare – a fornire un’interpretazione che, muovendo sempre dal testo o da una pluralità di testi, soddisfi adeguatamente gli interessi in gioco. Solo in questo modo e da questo punto di vista un’interpretazione può dirsi buona o giusta.
Diciamo questo non perché vogliamo impegnarci in un esercizio di filosofia del diritto o di scienza dell’interpretazione.
Ci sembra che quanto detto costituisca, piuttosto, la premessa per affrontare l’affermazione che, a nostro avviso, rappresenta il cuore della sentenza, ossia di quella, posta alla fine del § 4.5, secondo cui «la “definitività”, in conseguenza del mancato accertamento, della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale non porta in sé il diverso effetto della “preclusività” di sindacato per un periodo d’imposta successivo; anzi, per meglio dire, non produce proprio alcun effetto di accertamento, il quale può derivare solo dalla positiva rispondenza alla realtà di quanto dichiarato».
Ora, se non andiamo errati, è proprio la seducente simmetria, la cartesiana geometria di questo argomento – secondo cui la definitività consegue al mancato accertamento, la preclusività all’accertamento in positivo – ad aver guidato la decisione della Corte Suprema di Cassazione.
Sullo sfondo vi sono, è vero, altre considerazioni: per esempio quella sulla natura della dichiarazione tributaria come dichiarazione di scienza e non negoziale (ma i giudici di legittimità medesimi avvertono che le conclusioni non sarebbero cambiate neanche se si fosse assunta la diversa prospettiva della dichiarazione come atto negoziale); ovvero quella sull’autonomia delle obbligazioni derivanti da ciascun periodo d’imposta, in cui si fa leva su una definizione legale che, in altra sede, crediamo di aver dimostrato essere priva di reale valore (cfr. G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano 2000) come poi ha ritenuto la stessa Cassazione (Corte Cass., SS.UU., sent. 16 giugno 2006, n. 13916).
Ma, al di là di questi argomenti di supporto – che, inevitabilmente, saranno analizzati da chi annoterà in profondità questa sentenza –, il nucleo essenziale della decisione resta affidato all’argomento secondo il quale la preclusione è una conseguenza non della decadenza, ma dell’accertamento.
Ora, è evidente che questa affermazione non è fondata su alcuna norma espressa e, come tale, non ha alcuna necessità normativa.
Ma è anche evidente che essa non ha neppure alcuna necessità “di fatto”.
Solo per fare un esempio: quando, secondo un insegnamento che ha, ormai, la forza del dogma, si afferma che il “giudicato copre il dedotto e il deducibile”, non si dice, forse, che vi è un valore preclusivo (anche) connesso al mancato accertamento di determinati fatti (quelli deducibili, ma non dedotti)?
In realtà, l’unico dato difficilmente controvertibile è che la “decadenza” appartiene alla categoria degli effetti preclusivi (su questo esistono pagine di Falzea che ci sembra di poter definire insuperabili) e che la preclusività è una vicenda “stabilizzante”: l’ordinamento valuta che, da un certo punto in poi, il “costo” sociale della ricerca della “verità” sia maggiore dei suoi vantaggi.
Quale sia questo momento è un’opzione di politica del diritto. Quando, sempre per esemplificare, la Corte di Cassazione ha incominciato ad affermare – in contrasto con l’intera dottrina del diritto processuale da Chiovenda in avanti – che il giudicato determina non solo l’incontrovertibilità del rapporto giuridico, ma anche quella delle questioni che costituiscono l’antecedente necessario dell’esistenza del rapporto accertato, non ha valutato, per l’appunto, che il “costo” di lasciar fuori dal “fare stato” proprio del giudicato quelle questioni, fosse maggiore del vantaggio di limitare l’accertamento al solo rapporto?
Il che vuol dire, in altri termini, che lo stabilire, dinanzi a un fenomeno preclusivo qual è la decadenza, cosa sia effettivamente precluso e cosa non lo sia, non è un dato ricavabile attraverso formule meramente logiche, ma il frutto di una scelta di campo.
E la scelta di campo palesemente operata dalle Sezioni Unite nel caso di specie è quella di restringere al massimo il significato della definitività, per estendere quanto più possibile la possibilità di manovra dell’Agenzia delle Entrate.
E questo, si badi bene, avendo la piena consapevolezza del fatto che le vicende “ultrannuali” nel diritto tributario hanno assunto, mai come in questo momento, un valore pervasivo presentandosi con una frequenza che impedisce di considerarle come eccezioni.
E qui torniamo alla domanda iniziale: questa operazione muove oppure no da un’adeguata valutazione del rapporto costi/benefici?
Non è dubbio, infatti, che l’Agenzia non può verificare tutte le dichiarazioni di ciascun anno e che, in conseguenza di ciò, il sistema della “definitività”, come fino a ieri era per lo più concepito, può pregiudicare l’interesse fiscale.
Ma è altrettanto indubbio, come abbiamo cercato di evidenziare, che la soluzione opposta pregiudica anch’essa altri interessi i quali, si badi bene, non sono affatto quelli degli evasori o dei più furbi e fortunati.
Cosicché la questione da risolvere – ed è un problema che la Corte Suprema di Cassazione, lo voglia o no, non può eludere – è quello di stabilire qual è il male minore fra la tutela usque ad effusionem sanguinis dell’interesse fiscale e quella della certezza e del consolidamento dei rapporti giuridici.
A prescindere dalle inclinazioni e dai giudizi personali, a noi sembra che, anche volgendo lo sguardo al recente passato, sia facile trarre un insegnamento da esperienze come quelle del c.d. “raddoppio dei termini” (disciplina in sé molto più “equilibrata” di quella che emerge da questa sentenza); dell’abuso del diritto rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità; dell’impiego dell’art. 20 del TUR in chiave antielusiva (dove il giudice delle leggi ha aperto nel giudice di legittimità una ferita ancora forse non rimarginata); ecc. E l’insegnamento è che il sistema non tollera che l’incertezza salga oltre un certo livello.
La previsione è, dunque, che dopo questa sentenza arriverà un moto di riflusso che ricondurrà più o meno le cose verso un punto di arrivo più equilibrato.
Ma nel periodo intermedio ci saranno tanti che subiranno non lievi conseguenze da questo nuovo stato di cose e per i quali il ritorno allo stato quo ante apparirà null’altro che l’aggiunta della beffa al danno.
O, meglio, l’inveramento di un principio la cui verità è indiscussa: summum ius, summa iniuria
Tags: accertamento, crediti d'imposta, Decadenza, perdite, Termini