LE UDIENZE DEL PROCESSO TRIBUTARIO AI SENSI DELL’ART. 27 DEL D.L. N. 137 DEL 2020
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1. L’ambito di applicazione
Il d.l. n. 137 del 2020 (c.d. “Decreto Ristori”) contiene una disposizione, l’art. 27, che, relativamente al processo tributario, come ormai è noto, limita fortemente (o, forse, esclude tout court) lo svolgimento delle udienze in “presenza” sia per quanto riguarda le parti del processo, sia per ciò che attiene ai componenti dell’organo giudicante.
La non impeccabile tecnica normativa pone non pochi dubbi interpretativi che inducono a svolgere qualche considerazione finalizzata a offrire un contributo alla migliore comprensione di tale disposizione, almeno nella misura in cui si cercherà di individuare le questioni maggiormente problematiche, pur senza offrire soluzioni nette.
In primo luogo, occorre comprendere qual è l’ambito di applicazione della norma che, ai sensi del primo comma, è delimitato temporalmente e oggettivamente ed è condizionato al verificarsi di determinati presupposti.
Il limite temporale è chiaro: la disciplina contenuta nell’art. 27 del Decreto Ristori sarà applicabile, allo stato, fino al 31 gennaio 2021, ossia fino al termine finale degli effetti della dichiarazione dello stato di emergenza come prorogato, da ultimo, dal d.l. 7 ottobre 2020, n. 125.
Assai meno chiari sono i presupposti applicativi.
L’art. 27, comma 1, cit. stabilisce che la disciplina in esso contenuta sia applicabile «ove sussistano divieti, limiti, impossibilità di circolazione su tutto o parte del territorio nazionale conseguenti al predetto stato di emergenza ovvero altre situazioni di pericolo per l’incolumità pubblica o dei soggetti a vario titolo interessati nel processo tributario» e pone, almeno, due ordini di problemi.
Il primo problema riguarda la natura delle circostanze indicate, ossia se occorra fare riferimento ai limiti di circolazione e/o alle situazioni di pericolo come individuati in specifici provvedimenti, oppure se siano rilevanti anche le circostanze di fatto idonee ad incidere sulla circolazione o a creare situazioni di pericolo.
Il riferimento alla “impossibilità di circolazione” come distinta dal divieto – distinzione che dovrebbe consistere, appunto, nel carattere fattuale dell’impossibilità contrapposto al carattere legale del divieto – e alle “altre situazioni di pericolo” farebbe propendere per la seconda soluzione la quale, tuttavia, implicherebbe che, in mancanza di diverse indicazioni, il riscontro di tali presupposti debba essere accertato, volta per volta, dal presidente di ciascuna commissione tributaria.
Se così fosse, allora il decreto di “autorizzazione” dovrebbe avere come contenuto, non già la mera “autorizzazione” allo svolgimento da remoto ma, innanzi tutto e in ogni caso, l’accertamento e la dichiarazione di sussistenza dei ricordati presupposti. Invero, dall’esistenza della condizione di pericolo o di impedimento della circolazione scaturisce in ogni caso una deroga alle modalità di svolgimento del processo (come rileveremo fra breve) e, quindi, se i presupposti predetti devono essere riscontrati in concreto per l’applicazione del regime derogatorio, allora essi dovranno essere accertati e dichiarati anche nelle ipotesi in cui la deroga non consista nello svolgimento delle udienze da remoto, ma anche nella decisione “allo stato degli atti”.
Tuttavia, di questo decreto di mero accertamento dei presupposti, non vi è traccia nella lettera della norma.
Da questo punto di vista emerge con nettezza la differente formulazione dell’art. 27 rispetto all’art. 25 del medesimo Decreto Ristori che, per i processi amministrativi, dispone in termini generali il passaggio in decisione di tutte le controversie allo stato degli atti, salvo istanza delle parti.
Non si comprende, infatti, il motivo per il quale nel processo amministrativo l’attuale condizione epidemiologica costituirebbe sempre ragione impeditiva dello svolgimento della pubblica udienza, mentre nel processo tributario risulterebbe necessario un accertamento da svolgersi caso per caso e affidato a ciascun presidente di commissione (peraltro con la teorica possibilità che il presidente della commissione tributaria provinciale e quello della commissione tributaria regionale del medesimo capoluogo di regione assumano provvedimenti diversi).
Alternativamente, come accennavamo, si potrebbe ritenere che i predetti presupposti applicativi non siano da accertare di volta in volta, ma abbiano essi stessi natura legale, ossia siano quelli risultanti dai provvedimenti assunti, in via generale, dalle competenti autorità.
Questa soluzione sarebbe idonea a superare alcune perplessità suscitate dalla soluzione alternativa, ma sollecita nuovi interrogativi. Non risulterebbe chiaro, in primo luogo, quali sono i provvedimenti ai quali ci si riferisce e, in secondo luogo, vi è il dubbio se alcuno dei provvedimenti già vigenti sia idoneo a far considerare integrati i presupposti di legge.
Più in generale, non ci si può nascondere che questa interpretazione equivale, in larga misura, a una interpretatio abrograns dell’inciso che fissa i predetti presupposti.
Peraltro, l’esperienza concreta sembra attestare che le commissioni tributarie si stiano orientando verso questa seconda soluzione in modo anzi più radicale, ossia assumendo che i predetti presupposti applicativi devono considerarsi sussistenti in re ipsa e, quindi, senza che vi sia bisogno nemmeno di darne specificamente atto.
In questo modo, la disciplina delle udienze nel processo tributario risulta allineata, sotto questo punto di vista, a quella del processo amministrativo con un superamento della differente formulazione delle disposizioni relative ai due ambiti giurisdizionali. Il che, come incidentalmente notavamo, conduce a una soluzione complessivamente più razionale, ancorchè a scapito della littera legis.
Sotto il profilo oggettivo, infine e come abbiamo detto, la disposizione si applica allo «svolgimento delle udienze pubbliche e camerali e delle camere di consiglio».
Anche questa distinzione fra “udienze […] camerali” e “camere di consiglio” non è perfettamente in linea con la disciplina del processo tributario che, invece, distingue fra “trattazione in pubblica udienza” (art. 34 del d.lgs. n. 546/1992), “trattazione in camera di consiglio” in forma non pubblica e senza intervento delle parti (art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992), “trattazione in camera di consiglio” in forma non pubblica, ma con la partecipazione delle (sole) parti (artt. 47, comma 4 e 70, comma 7, del d.lgs. n. 546 del 1992) e “deliberazione in camera di consiglio” (art. 35 del d.lgs. n. 546 del 1992).
Verosimilmente, la formula adottata è diretta a indicare, in modo breviloquente e onnicomprensivo, tutte le diverse ipotesi prima menzionate, in quanto la modalità “da remoto” interessa non solo le parti, ma anche i componenti del collegio giudicante.
Nondimeno, questa interpretazione – che, anche per i motivi che indicheremo più oltre, ci sembra quella maggiormente condivisibile – lascia aperto almeno un dubbio relativo alla “trattazione in camera di consiglio” senza partecipazione delle parti (oltre che del pubblico) e alla “deliberazione in camera di consiglio”.
Non appare infatti disciplinata la modalità di svolgimento di tali fasi processuali ove manchi il decreto di autorizzazione alla trattazione da remoto. Al riguardo, non è sufficiente dire che la decisione viene assunta allo stato degli atti (circostanza ovvia sia per ciò che riguarda la trattazione di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, sia, a maggior ragione, la deliberazione di cui al successivo art. 35), perché occorre stabilire come il collegio possa “riunirsi” – in assenza del collegamento da remoto – per trattare la causa o per deliberare.
Come diremo, la probabile soluzione è nel senso che, per le camere di consiglio che si svolgono senza la presenza delle parti, l’alternativa non sia fra svolgimento da remoto e decisione agli stati degli atti (come avviene per le udienze), ma fra svolgimento da remoto e svolgimento in presenza.
2. Il procedimento relativo alle “camere di consiglio”
Il combinato disposto dei primi due commi dell’art. 27 cit. delinea un particolare procedimento che risulta applicabile entro i limiti (temporali, di presupposti e oggettivi) prima delineati.
Occorre, tuttavia, aggiungere che il secondo comma dell’art. 27 del Decreto Ristori introduce un’ulteriore distinzione, in quanto il procedimento ivi delineato risulterebbe applicabile alle sole “udienze”.
Intesa letteralmente, questa specificazione dovrebbe essere interpretata nel senso che la previsione di cui all’art. 27, comma 2, del Decreto Ristori si applica alle sole udienze per la trattazione dei ricorsi (per le quali sia stata chiesta la pubblica udienza) e non alle ipotesi di camera di consiglio previste per la trattazione delle istanze di tutela cautelare e dei ricorsi per ottemperanza.
La disciplina di tali fasi del giudizio (cautelare o di ottemperanza) sarebbe, quindi, rinvenibile nel solo primo comma.
Tuttavia, questa soluzione fa sorgere alcune perplessità.
Come si è già rilevato, il primo comma dell’art. 27 del Decreto Ristori non indica come si svolge l’udienza nel caso in cui il presidente non autorizzi la trattazione da remoto. Quindi, delle due l’una: o per tutte le ipotesi di cui al primo comma (ossia tanto per le udienze in senso proprio, quanto per le udienze camerali e le camere di consiglio) si fa riferimento, per i casi in cui non vi è l’autorizzazione alla trattazione da remoto, alla disciplina del secondo comma, oppure non resta che concludere per lo svolgimento in presenza.
Quest’ultima soluzione – ossia quella dello svolgimento in presenza in caso di mancata autorizzazione alla trattazione da remoto – appare razionale per il caso delle camere di consiglio partecipate solo dai componenti della commissione, anche perché sarebbe davvero un fuor d’opera pensare che, in tali casi, si possa applicare il secondo comma dell’art. 27 cit. (sia con riferimento alla decisione allo stato degli atti di cui non ha senso parlare per una decisione in camera di consiglio, sia per le altre modalità di trattazione e il relativo procedimento).
Viceversa, la medesima soluzione risulta meno lineare nel caso delle camere di consiglio in cui sia prevista anche la presenza delle parti.
La minore razionalità di tale soluzione dipenderebbe da ciò che – poiché tale soluzione implica che, in caso di mancata autorizzazione alla trattazione da remoto, si renda necessaria la trattazione in presenza (anche delle parti) per i casi non compresi nel secondo comma dell’art. 27 cit., là dove per i casi riconducibili a tale disposizione l’alternativa alla trattazione da remoto è la decisione allo stato degli atti – non sarebbe facilmente individuabile la ragione per la quale i limiti alla circolazione o lo stato di pericolo, ritenuti preclusivi della presenza delle parti nelle udienze strettamente intesi, risulterebbero non preclusivi della presenza delle parti in camera di consiglio.
Alternativamente, si potrebbe pensare di intendere il termine udienza in un senso più lato, comprensivo delle camere di consiglio in cui sia prevista la presenza delle parti. Detto altrimenti, il secondo comma dell’art. 27 del Decreto Ristori sarebbe applicabile anche a taluna delle camere di consiglio previste dall’art. 27, comma 1, cit. (ma comunque non alla totalità di esse).
Più in particolare, l’art. 27, comma 2, del Decreto Ristori sarebbe applicabile, oltre che alle udienze, anche alle camere di consiglio “partecipate”. Cosicchè che anche per tali camere di consiglio sarebbe prevista, in alternativa allo svolgimento da remoto, la trattazione in forma scritta.
Tuttavia, non si può negare che questa soluzione implica la scelta per un rito – comprendente un duplice scambio di memorie – la cui congruità rispetto alle fasi cautelari e dell’ottemperanza è per lo dubbia.
Quanto alla disciplina formale, l’art. 27 del Decreto Ristori
Tale provvedimento deve essere emanato almeno cinque giorni (di calendario, non liberi) prima della data fissata per l’udienza e tale circostanza deve essere comunicata alle parti tre giorni (di calendario, non liberi) prima della data medesima.
Ovviamente, la comunicazione non dovrebbe essere richiesta né per la trattazione in camera di consiglio di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992 (ossia la forma di trattazione del ricorso ordinariamente applicabile in tutti i casi in cui non sia richiesta l’udienza pubblica), né per la deliberazione in camera di consiglio prevista dall’art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 nei casi in cui il ricorso non sia deciso immediatamente dopo l’udienza.
La comunicazione sembrerebbe dover essere inviata a tutte le parti indipendentemente dalla loro costituzione in giudizio.
Se si accoglie la tesi secondo la quale il decreto del presidente del tribunale è necessario anche per accertare la sussistenza dei presupposti (di “pericolo” o di limiti alla circolazione) – applicandosi, in difetto, la disciplina ordinaria – si dovrebbe ritenere che il decreto debba essere comunicato alle parti anche quando non contenga l’autorizzazione allo svolgimento da remoto.
3. Il procedimento relativo alle “udienze”
Fermo restando il dubbio circa l’esatto significato da attribuire al termine “udienza” di cui all’art. 27, comma 2, del Decreto Ristori – ossia se esso indichi le sole udienze di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 546 del 1992, secondo l’interpretazione preferibile, o comprenda anche le camere di consiglio nelle quali devono essere sentite le parti – là dove sia prevista tale fase del giudizio la disciplina del relativo rito si presenta più articolata.
Sussistendone i presupposti – individuati, non senza qualche incertezza, in precedenza – la modalità ordinaria di svolgimento delle udienze è quella della decisione allo stato degli atti (art. 27, comma 2, del Decreto Ristori).
In questa modalità, il contraddittorio fra le parti dovrebbe svolgersi secondo la disciplina propria dei ricorsi per i quali non sia richiesta la trattazione in pubblica udienza ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992. In altri termini, l’attività difensiva dovrebbe svolgersi attraverso il ricorso (o l’appello), l’atto di controdeduzioni, le memorie e le repliche.
Questa modalità ordinaria è derogabile solo (a) se vi è il decreto del presidente di cui all’art. 27, comma 1, cit. autorizzante lo svolgimento da remoto, ovvero (b) a seguito di apposita istanza di una delle parti.
Mentre, ovviamente, nel caso sub (a) il decreto di autorizzazione previsto dall’art. 27, comma 1, del Decreto Ristori determina il passaggio dalla decisione allo stato degli atti alla trattazione da remoto, viceversa, nel caso sub (b), l’istanza di una delle parti implica l’assunzione, da parte dell’organo giudicante, di una nuova decisione che potrebbe condurre, alternativamente, a due diversi esiti: la fissazione comunque della trattazione da remoto, o la trattazione scritta mediante scambio di memorie e di repliche entro termini appositamente fissati che non possono essere inferiori, rispettivamente, a dieci giorni e a cinque giorni.
Nel caso di trattazione scritta sembrerebbe comunque necessaria la fissazione di termini specifici e, quindi, non dovrebbero valere gli ordinari termini di cui all’art. 32, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, anche nelle ipotesi in cui l’istanza sia stata presentata e la decisione, da parte del presidente della commissione, sia stata assunta (come sembrerebbe naturalmente possibile) anteriormente al decorso di tali termini.
In questo senso sembra deporre anche l’indicazione dei termini per la trattazione scritta come giorni di calendario e non come giorni liberi.
Conseguentemente, relativamente all’istanza si dovrebbe sempre provvedere espressamente – probabilmente attraverso un decreto – tanto per autorizzare la trattazione da remoto, quanto per disporre (fissandone i relativi termini) la trattazione scritta.
La prassi che si sta registrando in questi giorni di provvedimenti dei presidenti delle commissioni che stabiliscono in via preventiva che, in caso di istanza, la trattazione avverrà comunque per iscritto può essere ritenuta compatibile con il dettato normativo solo se, a seguito di ogni specifica istanza, tale previsione generale sia integrata da un decreto con la fissazione degli specifici giorni per lo scambio di memorie e repliche.
L’istanza può essere presentata fino a due giorni liberi prima della data fissata per l’udienza. Il termine finale, per espressa previsione, scade (tendenzialmente) nello stesso giorno di quello stabilito per la comunicazione del decreto di cui all’art. 27, comma 1, del Decreto Ristori.
Quindi, l’istanza può essere presentata – sempreché, ovviamente, non sia stata autorizzata la trattazione da remoto che la rende superflua – quando il rispetto dei termini per le memorie e le repliche è incompatibile con la data fissata per l’udienza. In tale caso, il presidente, ove non ritenga comunque autorizzabile la trattazione da remoto, dovrà rinviare l’udienza fissando ex novo i termini per memorie e repliche.
L’istanza deve essere notificata alle sole parti costituite e depositata presso la segreteria della commissione (con la prova dell’avvenuta notifica).
Il decreto che si pronuncia sull’istanza può disporre che (i) la trattazione avvenga da remoto, ovvero che (ii) la trattazione avvenga in forma scritta. Poiché nella prima ipotesi, ad instar di quanto previsto per il decreto che autorizza la trattazione da remoto di cui all’art. 27, comma 1, del Decreto Ristori, il decreto dovrà essere comunicato a tutte le parti (e non solo a quelle costituite) e poiché il medesimo decreto dovrebbe avere le medesime forme di pubblicità, indipendentemente dal provvedimento assunto in concreto, si dovrebbe concludere che anche nel secondo caso esso vada comunicato a tutte le parti, ancorchè non costituite.
Occorre chiedersi, peraltro, se, in mancanza di decreto che autorizzi la trattazione da remoto (che potrebbe essere comunicato entro tre giorni prima dalla data fissata per l’udienza), la parte resistente o appellata che non si sia ancora costituita e che, stante l’applicazione della disciplina propria della trattazione in camera di consiglio, potrebbe costituirsi fino a dieci giorni liberi prima dell’udienza (ovvero, secondo alcune tesi, fino a cinque giorni liberi prima), possa, nel costituirsi, anche instare per la trattazione da remoto o, in subordine, per iscritto.
Come si vede, gli effetti sul procedimento determinati dall’art. 27 del Decreto Ristori sono, palesemente, nel senso di determinare – in aggiunta alle incertezze non marginali cui si è fatto cenno – un’indubbia maggiore complessità della relativa disciplina con una moltiplicazione degli adempimenti e delle scadenze di cui i difensori dovranno tenere adeguatamente conto per tutto il periodo, auspicabilmente breve, in cui la disciplina resterà applicabile.
4. Considerazioni di ordine sistematico
È impresa sempre azzardata quella di chi voglia trarre conclusioni di ordine sistematico muovendo da una disciplina avente carattere palesemente contingente e temporaneo.
E questo è tanto più vero quando la disciplina in questione non brilla per la qualità della sua formulazione.
Tuttavia, vi è un dato che merita di essere sottolineato.
Come si è detto, il decreto che dispone le modalità di trattazione è comunicato a tutte le parti del giudizio (non alle sole parti costituite) tanto nel caso in cui autorizzi la trattazione da remoto, quanto nell’ipotesi in cui stabilisca che la trattazione deve avvenire per iscritto fissando le date per lo scambio di memorie nonché, eventualmente, differendo la data dell’udienza.
Questa soluzione sembrerebbe logicamente implicare che anche le parti non costituite abbiano interesse a conoscere le modalità di svolgimento delle attività difensive, anche nelle ipotesi in cui siano scaduti i termini non solo per il deposito delle vere e proprie controdeduzioni, ma anche per il deposito di documenti e memorie. Ricordiamo, infatti, che il decreto di cui all’art. 27, comma 1, del Decreto Ristori (e, probabilmente, anche quello di cui al successivo secondo comma) può essere notificato fino a tre giorni prima della data prevista per l’udienza.
Ma se è vero che vi è questo interesse anche delle parti non costituite, allora si deve presumere che esse possano ancora intervenire in giudizio (sia pure trovandolo nello stato in cui esso è e quindi facendo salve tutte le preclusioni fino a quel momento maturate), perché è solo la possibilità di tale intervento che sembrerebbe giustificare il predetto interesse.
In questo senso, la norma parrebbe fornire un’indicazione indiretta in ordine al problema, per il quale non vi è unanimità di vedute, circa il termine ultimo per la costituzione in giudizio del convenuto o dell’appellato. E tale termine, se valutato alla luce delle indicazioni ritraibili dall’art. 27 del Decreto Ristori, sembrerebbe coincidere con l’inizio della discussione in pubblica udienza.
5. Problemi di legittimità costituzionale
Infine, si deve dar conto del fatto che, da più parti, si è autorevolmente adombrata la possibilità che la disciplina in esame costituisca un vulnus all’efficacia del processo tributario e ai diritti delle parti del giudizio costituzionalmente garantiti.
Non sembra opportuno pronunciarsi sull’incidenza dell’art. 27 sull’efficienza del sistema processuale (intesa come idoneità a pervenire all’accertamento della “verità” processuale in modo affidabile e in temi contenuti): probabilmente è vero che alcune delle imperfezioni già presenti potrebbero essere accentuate ulteriormente dalla disciplina considerata. Tuttavia, si tratterebbe di una delle conseguenze “collaterali” di una situazione di emergenza e – poiché l’efficienza in generale non può mai essere tutelata in modo assoluto, ma sempre in termini relativi, ossia in rapporto alle condizioni esistenti in ogni singolo momento storico – non sembra possibile censurare, in termini giuridici, sotto questo profilo la disciplina medesima.
Per quanto riguarda, invece, le garanzie offerte dalla Costituzione alle parti, ci sembra di dover rilevare che, secondo la disciplina di cui all’art. 27 del Decreto Ristori, il livello di contraddittorio fra le parti non è mai inferiore a quello previsto per la trattazione del ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992. E, da questo punto di vista, si deve ricordare che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 141 del 1998, ha ritenuto che la disciplina della trattazione in camera di consiglio non fosse in contrasto con l’art. 24 Cost. e con il principio della parità delle armi.
Certo è, tuttavia, che viene invece sacrificato in modo rilevante il principio della pubblicità delle udienze, il quale, però, è posto a tutela dei valori ordinamentali della giustizia e non a garanzia dell’interesse delle parti del giudizio. Cosicché, nella prospettiva della garanzia ordinamentale, non sembra implausibile che possa ritenersi che la giustizia resti amministrata nel nome del popolo Italiano anche se, per un lasso di tempo necessariamente circoscritto, la partecipazione popolare al processo sia preclusa in funzione della tutela di altro valore ordinamentale, qual è la salute.
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