MA DOVE STA IL SERVIZIO?! Note minime sull’insostenibile posizione dell’Agenzia in tema di accordi transattivi e IVA

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Commento a Risposta a interpello n. 386 del 22 settembre 2020


1. La forza illusoria delle parole

Non sappiamo quale sia l’origine della tendenza dell’Agenzia che ci accingiamo a criticare.

È possibile, tuttavia, che una delle cause possa rintracciarsi nella capacità illusoria e fuorviante delle parole.

Per esempio, nella vita di ogni giorno, non è raro imbattersi in qualcuno che chiede se deve “fatturare una certa somma”. E noi dobbiamo spiegare che non “si fatturano le somme”, perché l’i.v.a. non si applica su di esse, ma su determinate cessioni di beni o prestazioni di servizi rispetto alle quali la “somma” (ossia il corrispettivo) serve solo a determinare la base imponibile.

Certamente, non è questo l’errore in cui può cadere l’Agenzia. Ma, forse, sulla stessa può esercitare la predetta capacità fuorviante la parola “operazione”.

Nel linguaggio dei tecnici, infatti, è frequentissimo parlare, con riferimento all’i.v.a., di operazioni imponibili. Il che, si badi bene, non è sbagliato. Si tratta di un’espressione generica che serve benissimo al suo scopo, ossia quello di indicare con un unico termine tanto le cessioni di beni, quanto le prestazioni di servizi.

Però, a furia di parlare genericamente di operazioni, si può finire per, non diciamo dimenticare, ma quantomeno porre in secondo piano il fatto che:

  1. l’i.v.a. è un’imposta sui consumi;
  2. i passaggi intermedi sono soggetti a imposta solo come modalità strumentali al fine rendere imponibile, in modo tuttavia neutrale, l’immissione in consumo dei beni o dei servizi;
  3. la vera nozione di “servizio imponibile” (per le cessioni di beni la questione è evidentemente più semplice) si può quindi cogliere ponendosi dal punto di vista del “consumatore”.

2. Le “obbligazioni di fare, non fare o permettere” non sono una clausola residuale.

Tenendo presenti le tre affermazioni fatte alla fine del paragrafo precedente, si dovrebbe comprende bene che la formula conclusiva dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972 non è una formula residuale intesa ad abbracciare ogni accordo da cui nascono di obbligazioni e, soprattutto, non può essere intesa come “ogni altra operazione posta in essere a fronte del pagamento di un corrispettivo”.

Perché, in realtà, le obbligazioni genericamente indicate nella parte conclusiva dell’art. 3, comma 1, cit. devono necessariamente avere, oltre il carattere dell’obbligazione assunta verso il pagamento di un prezzo, anche e soprattutto le caratteristiche del “servizio” riscontrabili nelle altre prestazioni espressamente “nominate” nella prima parte della medesima disposizione (ossia i “contratti d’opera, mandato, trasporto” ecc.).

Questo risulta già a livello testuale, giacché la norma, se letta con la dovuta attenzione, non dice che costituiscono servizi, fra le altre, le obbligazioni “di fare, di non fare o di permettere”; al contrario essa afferma che «Costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni rese verso corrispettivo dipendenti … da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere”.

Quindi, secondo la formula normativa, le obbligazioni “di fare, di non fare o di permettere” non sono imponibili in sé (ossia per il solo fatto di essere obbligazioni assunte a titolo oneroso), ma solo in quanto esse costituiscono, per così dire, il “veicolo” giuridico da cui “dipendono” le prestazioni imponibili.

Ma al di là di questo argomento, che potrebbe anche considerarsi, in fin dei conti, formale, è decisiva la considerazione fatta nel paragrafo precedente: per cogliere la vera nozione di “servizio imponibile” rispetto a un’imposta sui consumi ci si deve porre nella prospettiva del “consumo” ossia del momento determinante dell’imposta, quello verso la cui imposizione sono protesi e preordinati tutti i passaggi intermedi che, proprio per la loro (almeno tendenziale) neutralità, non hanno valore di per sé, ma solo come mezzo al fine di realizzare la tassazione dell’immissione in consumo di beni o servizi.

Un esempio varrà a chiarire meglio quanto stiamo cercando di esprimere. Si tratta di un esempio ovviamente un po’ paradossale, sia perché il paradosso serve a rendere più evidenti alcuni aspetti, sia perché esso è utile a conferire un tono più “leggero” a queste note. Ma, come si potrà constatare, è anche un esempio che non è privo di riferimenti al caso risolto dalla Risposta n. 386 che qui si commenta.

Si immagini un consumatore finale – p.es., la paradigmatica “casalinga di Voghera” – che si reca al ristorante dove, per una sua distrazione, fa crollare un tavolo pieno di piatti e bicchieri che vanno miseramente in frantumi.

Poiché i piatti e i bicchieri sono di pregio (si tratta, ovviamente, di un ristorante “stellato”), il ristoratore (evidentemente del tutto disinteressato a coltivare la relazione con un cliente tanto sbadato) chiede di essere risarcito del danno. Per evitare una controversia, le parti si accordano immediatamente per un certo pagamento e, poiché il marito della casalinga di Voghera è un avvocato, decidono di mettere per iscritto l’accordo che prevede, proprio come nel caso oggetto della Risposta n. 386, la clausola secondo cui il ristoratore rinuncia «ad ogni altra pretesa (…). La suddetta rinuncia è risolutivamente condizionata al corretto e tempestivo adempimento del presente accordo».

Se, a questo punto, il patron del locale dicesse: «signora, per questo servizio le devo addebitare l’i.v.a.» certamente l‘incauta avventrice penserebbe che la sua controparte si stia riferendo ai miseri avanzi del servizio di Capodimonte che un solerte cameriere sta rimuovendo dal pavimento. E quando il diligente ristoratore le spiegherà che, invece, egli sta solo ottemperando alle indicazioni dell’Agenzia che reputa la rinuncia quale prestazione di servizi imponibile perché, come dice la Risposta n. 386, quella clausola «integra, in effetti, la sussistenza del sinallagma tra la prestazione di servizi e la somma di denaro, rappresentando il nesso diretto tra l’impegno assunto dalla società e la somma versata dall’istante», allora la casalinga di Voghera (e con lei tutti i clienti che avranno assistito alla scena) non potrà che esclamare: «ma dove sta il servizio?».

Un dubbio che nessuno saprà risolvere.

Da un punto di vista giuridico si può anche dimostrare – e sarebbe una dimostrazione tutt’altro che difficile – che l’obbligo di rinunciare non costituisce un’obbligazione “di fare”.

Ma il punto, a ben vedere, non è neppure questo.

Più semplicemente, il dato di fondo è che le rinunce – così come in genere tutte le concessioni reciproche che le parti si “obbligano” a porre in essere nel caso di accordi transattivi – non sono “servizi” suscettibili di integrare il presupposto di un’imposta sui consumi.

Non contano, al riguardo, né l’interpretazione della specifica locuzione, né quella dell’art. 3 del d.P.R. n. 633. Ciò che rileva è la ricostruzione del sistema dell’imposta sul valore aggiunto operata in conformità al suo presupposto.

Tanto è vero che le conclusioni che è lecito trarre – a nostro sommesso avviso – relativamente all’inquadramento delle obbligazioni “di fare, di non fare o di permettere” nell’i.v.a., non è detto che valgano necessariamente anche quando si tratta di interpretare la medesima locuzione ai fini dell’art. 67, comma 1, lett. l) del t.u.i.r.

L’espressione è certamente uguale, ma il presupposto delle due imposte è del tutto diverso.

E se, partendo dall’espressione obbligazioni “di fare, di non fare e di permettere” o da una generica nozione di “operazione”, si potrebbe essere indotti a trattare la rinuncia, nell’i.v.a., come una fattispecie imponibile, l’illusione cade non appena si pone al centro della riflessione il consumo e l’immissione di una prestazione di servizi al consumo,

Perché, sempre a nostro avviso, è impossibile vedere nella “rinuncia” resa verso corrispettivo la prestazione di un servizio immesso al consumo (ossia idoneo a soddisfare un interesse del comune “consumatore”: cfr., per più estese considerazioni G: Fransoni, Spunti sulla nozione di consumo di beni e servizi nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 2004, II, 543).

E certo si faticherebbe non poco a convincere del contrario la nostra casalinga di Voghera!.

D’altra parte, la stessa Corte di Giustizia, in alcune famose sentenze (cfr., CGCE, sent. 18.12.1997, Landboden, C-384/95 e sent.26.2.1996, Mohr, C-215/94) ha evidentemente escluso che un’obbligazione di fare assunta verso corrispettivo costituisse, per il solo effetto di tali caratteristiche, un’operazione imponibile, giacché, nei casi come quelli decisi dalle sentenze citate, l’imprenditore «non fornisce servizi ad un consumatore identificabile né un vantaggio che possa considerarsi come un elemento costitutivo del costo dell’attività di una terza persona nel circuito commerciale» (i casi sono opportunamente citati da uno dei più autorevoli e acuti conoscitori dell’i.v.a., cfr., L. Cecamore, Valore aggiunto (imposta sul), in Dig. IV, Disc. priv., sez. comm., XIV, Torino 1999, 363).

3. Possibili obiezioni e auspici conclusivi

A quanto si è detto si potrebbe certamente obiettare che l’esempio fatto è quello del risarcimento di un danno extracontrattuale, mentre nel caso oggetto della Risposta n. 386 siamo di fronte a una responsabilità contrattuale.

Si potrebbe poi aggiungere che, nel caso di specie, il locatore addebitava al conduttore spese che, secondo la disciplina contrattuale, quest’ultimo avrebbe dovuto sopportare direttamente.

Non è nostra intenzione negare queste circostanze.

Il punto è che, se l’Agenzia assumesse che il risarcimento del danno o la concessione posta in essere in sede transattiva potrebbero costituire in talune specifiche circostanze delle prestazioni di servizi “in sé” (per un motivo che, tuttavia, a noi viene difficile comprendere), la tesi potrebbe forse meritare di essere considerata e discussa.

Viceversa, il dissenso rispetto alla posizione dell’Agenzia non può che essere radicale – per le ragioni prima esposte – là dove la conclusione circa l’imponibilità viene raggiunta sulla base dell’argomento che si è prima riferito, ossia che l’aver introdotto nell’accordo transattivo la clausola secondo la quale la «rinuncia […] è risolutivamente condizionata al corretto e tempestivo adempimento della presente accordo […] integra, in effetti, la sussistenza del sinallagma tra la prestazione di servizi e la somma di denaro, rappresentando il nesso diretto tra l’impegno assunto dalla società e la somma versata dall’istante».

E questo perché, in modo assolutamente improprio, si antepongono il “sinallagma” e l’“obbligazione” alla individuazione di un effettivo “servizio”.

Non resta che auspicare che l’Agenzia riveda tale posizione anche perché, in caso contrario, è facile immaginare che il mondo della transazioni incomincerà ad essere popolato di clausole davvero monstre nelle quali, ad esempio, a fronte di un accordo sostanziale in cui una parte  paga 1.000, si indicherà nell’accordo che, in realtà, tale somma è versata, contestualmente alla sottoscrizione dell’accordo, quanto a 999, a titolo di risarcimento del danno e quanto a 1 a fronte dell’obbligazione di controparte a rinunciare ad ogni ulteriore pretesa o, addirittura, alla previsione che la rinuncia è posta in essere a “titolo gratuito”.

Piccoli escamotages che ostacolano la corretta e lineare struttura del negozio transattivo al fine di risolvere un problema che non dovrebbe neppure porsi.

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