TRIBUTI PERIODICI E RETROATTIVITÀ
Tempo di Lettura: 11 minutiCommento a Cass. civ., sez. V, ord. n. 13430 del 28 aprile 2022
1. Un caso di motivazione apparente
Se i giudici della Corte Suprema di Cassazione si fossero trovati dinanzi a una sentenza motivata come quella in commento emessa da un giudice di merito l’avrebbero certamente ritenuta viziata perché munita di una motivazione solo apparente.
È, infatti, solo apparente la motivazione di una sentenza secondo la quale sono periodici solo i «tributi che connotino le prestazioni periodiche come basate su un’unica causa debendi continuativa».
Una simile affermazione (certamente errata in concreto, come vedremo) non è, da un punto di vista astratto, né giusta, né sbagliata. O, meglio, non lo è fino a quando non si spieghi la ragione per la quale si accoglie una simile nozione di tributo periodico. E di questa spiegazione non vi è traccia nella decisione in commento.
Siamo, quindi, di fronte a un tipico caso in cui la motivazione pur «graficamente esistente, non rende, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture».
Il problema, tuttavia, è che quando la motivazione apparente è contenuta in una sentenza di merito, vi è un errore che può essere rimediato dal giudice di grado superiore. Quando il medesimo vizio è recato da una sentenza di legittimità, siamo dinanzi a un errore irrimediabile, che si tramuta automaticamente, che lo si voglia o meno, in un atto di arbitrio.
Vi è di più. Ed è che i giudici di cassazione perdono, in questo modo, la legittimazione a rimproverare ai giudici di merito la colpa di rendere sentenze di bassa qualità. Perché loro stessi, che dovrebbero essere giudici esemplari, sono i primi a dare un cattivo esempio.
Ovviamente, non ci possiamo fermare qui.
Terminata la critica, il contributo della dottrina deve essere quello di indicare, se non la soluzione, almeno il modo corretto per raggiungerla.
2. I tributi periodici secondo le categorie dottrinali
La nozione di tributo periodico viene in rilievo, innanzi tutto, nell’ambito delle categorie dottrinali. Come tale essa è una nozione elaborata partendo dalla osservazione e classificazione dei diversi tributi.
Da questo punto di vista, nell’ambito della disciplina dei tributi, si può parlare di “periodo” in almeno tre diverse accezioni.
Queste tre accezioni hanno un elemento in comune. In ciascuna di esse, infatti, un “intervallo” di tempo – cioè lo iato intercorrente fra un momento iniziale e uno finale – è assunto a elemento della fattispecie normativa. La differenza dipende dal modo in cui l’intervallo temporale è inserito nella fattispecie.
I). – Secondo la prima accezione, il “periodo” è il tratto di tempo nell’ambito del quale una determinata situazione di fatto deve permanere (o entro il quale deve cessare) affinchè la fattispecie risulti integrata.
A titolo di esempio, possiamo indicare il caso classico del cosiddetto holding period (periodo di tempo per la cui durata una situazione deve permanere) o quello della soppressa agevolazione dell’imposta di registro per gli acquisti di fabbricati destinati alla rivendita nel triennio (periodo di tempo entro il quale una situazione deve cessare).
In effetti, però, la disciplina di tutti i tributi è costellata di “periodi” nell’accezione appena delineata. Il riferimento a un intervallo di tempo nel senso predetto si trova dalla disciplina della residenza a quella dell’agevolazione per la prima casa.
II). – Nella seconda – e più specificamente tributaria – accezione, il “periodo” è l’arco che “riunifica” una pluralità di eventi determinandone la considerazione complessiva come elementi di una medesima fattispecie.
Sempre per spiegarci con un esempio, gli interessi possono rilevare come reddito in modo atomistico (per esempio, se soggetti a ritenuta alla fonte), oppure possono essere considerati come reddito “globalmente” insieme ad altri interessi e/o ad altre fattispecie reddituali.
Nel primo caso, almeno in linea di principio, la fattispecie reddituale non è integrata anche da un “periodo” d’imposta (nel senso qui indicato). Nel secondo caso, invece, al fine di stabilire quali altre manifestazioni reddituali devono essere considerate globalmente, si fa riferimento a un intervallo temporale.
La norma, cioè, stabilisce che devono considerarsi quali componenti della medesima fattispecie tutti gli eventi che si collocano all’interno dell’arco temporale individuato attraverso l’indicazione di un momento iniziale e un momento finale. Ed è in questo senso che il periodo d’imposta (cioè l’intervallo temporale predetto) costituisce elemento della fattispecie normativa.
Nell’ambito delle discipline per le quali il periodo d’imposta integra la fattispecie nel senso qui indicato è frequente (diremmo, anzi, quasi indispensabile) la presenza anche di una specifica disciplina dell’“imputazione a periodo”. Cioè l’individuazione delle regole in base alle quali i fatti – che il periodo d’imposta è preordinato a “riunire” – sono attribuiti al (o sono esclusi dal) singolo arco temporale.
Si deve però fare attenzione: sebbene frequentemente il periodo d’imposta, così inteso, viene in rilievo nell’ambito di tributi periodici anche secondo la terza accezione (di cui si dirà), questa coincidenza è tutt’altro che necessaria.
Un’imposta sul reddito straordinaria applicata per un solo anno è un’imposta periodica nella seconda accezione qui considerata, ma non nella terza. E, viceversa, ci sono tributi che sono periodici secondo l’accezione che ci accingiamo ad esaminare, ma non alla stregua della nozione appena delineata.
III). – Infine, il “periodo” può essere elemento integrante della fattispecie nel senso che un determinato intervallo temporale individua il memento al ricorrere del quale l’imposta (ossia l’istituto tributario inteso come complesso di disposizioni fra loro coordinate in ragione di un medesimo presupposto) deve essere iterativamente applicata.
La nozione trova un riscontro normativo nella disciplina di cui al § 1 del Reichsabgabenordnung il quale stabiliva che «Le imposte sono prestazioni in denaro uniche o ricorrenti [einmalige oder laufende]». La periodicità del tributo, in questo senso, equivale, appunto, alla “ricorrenza”, ossia, come abbiamo detto, all’applicazione dell’imposta secondo intervalli regolari e successivi.
Con l’ulteriore avvertenza che, ad ogni intervallo, corrisponde solo una verifica dell’integrazione del presupposto, non un debito d’imposta. Quest’ultima conseguenza è, infatti, solo eventuale e dipenderà dal verificarsi di ulteriori elementi della fattispecie.
Come già abbiamo accennato, questa nozione non è in alcun modo necessariamente coincidente con quella delineata in precedenza. L’ormai quasi dimenticata Invim decennale era un’imposta periodica (con un periodo d’imposta molto lungo) secondo questa accezione, ma non alla stregua della seconda. In generale, tutti i tributi patrimoniali riguardanti singoli beni sono imposte periodiche solo secondo quest’ultima accezione.
Ovviamente, vi sono però imposte periodiche secondo tutte le accezioni considerate.
L’i.r.pe.f., l’i.re.s. e l’i.v.a. costituiscono la manifestazione più evidente di questa affermazione.
Nella loro disciplina troviamo, infatti, l’impiego del periodo come tratto di tempo durante il quale determinate situazioni devono permanere affinché la fattispecie sia integrata (abbiamo già fatto l’esempio dell’holding period). Ma è certo che il periodo d’imposta è anche, conformemente alla seconda nozione di periodicità, momento unificatore di più eventi che, in quanto riferibili al medesimo periodo, sono considerati come elementi della medesima fattispecie. Ed è altrettanto certo che le imposte prima citate, in quanto applicate in modo ricorrente, sono altresì periodiche alla stregua della terza nozione di periodicità.
3. Prime considerazioni critiche sulla sentenza in commento
Se si muove, allora, dalla periodicità dei tributi intesa come categoria dottrinale, è palese (al di là del vizio di motivazione) l’errore commesso dalla Corte Suprema di Cassazione.
E ciò da due punti di vista.
In primo luogo, è errato affermare che l’i.r.pe.f. si distinguerebbe dalla TASI o dalla TARSU a causa dell’«autonomia dei singoli periodi d’imposta ed in relazione all’autonoma valutazione dei presupposti impositivi». È palese che questi caratteri ricorrono per tutte le imposte menzionate.
L’autonomia dei singoli periodi d’imposta – che una assai convincente giurisprudenza della Cassazione ha totalmente ridimensionato anche per le imposte sui redditi – sussiste anche per la TASI e la TARSU. Sebbene non sia espressamente statuito, non sembra dubitabile che pure per queste imposte valga la regola secondo cui a ciascun periodo corrisponde un’obbligazione autonoma. Se, poi, fosse rilevante la presenza di una statuizione espressa (il che evidentemente non è) avremmo la singolare conseguenza che l’i.v.a. (dove l’autonomia dei periodi d’imposta non è espressamente sancita) sarebbe un tributo periodico come la TASI, ma non come l’i.re.s. Conclusione, questa, che si commenta da sola.
È pure comune a tutte le imposte citate dalla Cassazione «l’autonoma valutazione dei presupposti impositivi». Invero, il fatto che – nei tributi qualificabili come periodici in base alla terza fra le nozioni elencate nel paragrafo precedente – l’imposta deve essere applicata in modo “ricorrente” allo scadere di ciascun periodo, non significa, come abbiamo rilevato, che per ogni periodo vi sia un debito d’imposta. E questo vale sia per la TASI che per l’i.r.pe.f. Se il contribuente ha alienato alla fine del periodo d’imposta il fabbricato dal quale derivava il suo unico reddito, per il periodo d’imposta successivo non dovrà pagare né l’i.r.pe.f., né la TASI. Quindi, l’applicazione ricorrente significa solo verifica a intervalli regolari dell’esistenza dei presupposti.
Se, pertanto, si applica il metro di giudizio della autonomia del periodo d’imposta e dell’autonoma valutazione dei presupposti, non si può distinguere l’i.r.pe.f. dai tributi che, secondo la Corte, sarebbero invece periodici.
Fin qui abbiamo considerato l’elemento “negativo” individuato dalla Corte, ossia ciò che escluderebbe la periodicità. E abbiamo verificato che questo non fornisce nessuna indicazione utile a sorreggere la distinzione operata dai giudici di legittimità.
Passiamo, ora, a considerare l’elemento “positivo”, ossia ciò che, per la Corte, costituirebbe l’elemento caratteristico della periodicità. Con l’avvertenza che qui si sta prescindendo dal fatto che, in ogni caso, la motivazione sul punto sarebbe meramente apparente. E ciò in quanto la motivazione sarebbe pur sempre priva di ogni indicazione circa le ragioni per le quali sarebbero periodiche solo (o anche) le imposte che presentano quel determinato carattere.
Fermo restando il carattere apparente della motivazione, è però utile saggiare se l’elemento individuato dalla Cassazione abbia comunque un qualche pregio.
Il carattere essenziale della periodicità consisterebbe, come abbiamo visto, nel fatto che vi sarebbero più «prestazioni periodiche […] basate su un’unica causa debendi continuativa».
Ora, in primo luogo, è chiaro che, rispetto a questa definizione, gli esempi addotti dalla Corte Suprema di Cassazione, non sono in alcun modo pertinenti.
La causa debendi altro non è che la fattispecie del tributo. Ed è palese che nella TASI e nella TARI essa può certamente presentarsi identica a sé stessa in più periodi d’imposta (intendendo il periodo d’imposta in senso conforme alla terza nozione precedentemente delineata). Ma è altrettanto chiaro che questa possibilità sussiste sia per la TASI che per l’i.r.pe.f. (per limitarsi alle imposte considerate dalla Corte Suprema di Cassazione).
Soprattutto, il ripetersi della fattispecie non la rende per questo “unica”. La fattispecie – o, se si vuole, la causa debendi – potrebbe considerarsi unica solo se il verificarsi della fattispecie nel periodo 1, rendesse dovuta l’imposta anche per il periodo 2 e per quelli successivi. Invece, è necessario, per tutte le imposte considerate, che la fattispecie si ripresenti, per l’appunto, con le medesime caratteristiche anche nei successivi periodi d’imposta. Nell’ipotesi della fattispecie unica (di plurime obbligazioni) – ossia nel caso di unica causa debendi per come la intende la Cassazione – non è invece rilevante la sua permanenza in più periodi d’imposta successivi con le medesime caratteristiche giacché, una volta verificatasi, essa produce immediatamente (e indipendentemente da successive variazioni) il suo effetto che, sempre nella prospettiva della Corte Suprema di Cassazione, consisterebbe nel rendere dovuto il tributo in più periodi d’imposta.
Detto diversamente, per la unitaria causa debendi, i successivi eventi possono rilevare solo quali fattispecie modificative o estintive. Viceversa, tanto per l’i.r.pe.f., quanto per la TASI (ma il discorso può essere esteso a tutti i tributi periodici) la mancata realizzazione della medesima fattispecie in un successivo periodo d’imposta non rileva quale fattispecie estintiva, ma come mera insussistenza della fattispecie costitutiva.
È vero che, almeno secondo l’opinione di una parte della dottrina (alla quale aderiamo pienamente) e secondo la stessa giurisprudenza, l’accertamento giudiziale dell’esistenza di alcuni elementi della fattispecie aventi carattere di durata esplica i propri effetti per più periodi d’imposta. Ma questo vale (i) solo a condizioni di fatto e di diritto invariate e (ii) sia per la TARI, sia per l’i.r.pe.f. Soprattutto, poi, questa definizione dell’estensione oggettiva del giudicato non dipende in alcun modo dall’idea che vi sia una sola causa debendi.
Se, quindi, non è predicabile né per l’i.r.pe.f., né per la TASI l’esistenza di una causa debendi unitaria con efficacia pluriennale, ci si deve chiedere quali sarebbero i tributi contraddistinti dal carattere della periodicità elaborato dalla Corte di Cassazione.
La risposta a questa domanda è: nessuno. O, forse e con qualche sforzo, solo uno, anzi la singola applicazione di un solo tributo.
Si deve ricordare, infatti, che l’art. 17, comma 3, del d.P.R. n. 131 del 1986 stabilisce che «per i contratti di locazione e sublocazione di immobili urbani di durata pluriennale l’imposta può essere assolta sul corrispettivo pattuito per l’intera durata del contratto ovvero annualmente sull’ammontare del canone relativo a ciascun anno».
È allora possibile affermare – non senza qualche incertezza che non possiamo approfondire in questa sede – che, quando l’imposta di registro per i contratti di locazione è assolta annualmente, anziché una tantum, si sia dinanzi all’applicazione frazionata di un’unica imposta il cui debito risulterebbe riconducibile all’unica causa debendi.
Ammesso, allora e con i dubbi che abbiamo adombrato, che questa ipotesi sia conforme alla nozione di periodicità indicata dalla Cassazione, occorre immediatamente domandarsi: ma è possibile (ed ha un senso) che una categoria si riduca a una sola ipotesi? Ed avrebbe senso ipotizzare che il legislatore dello Statuto del contribuente abbia dettato una norma “individuale”, per altro al fine di disciplinare un caso tutto sommato marginale?
4. La periodicità dei tributi come fattispecie normativa
La risposta ai quesiti formulati in precedenza ci conduce ad evidenziare il difetto maggiore della sentenza in commento.
Fino ad ora, abbiamo parlato di periodicità dei tributi secondo le categorie dottrinali. Queste, come abbiamo avuto modo di chiarire, sono il frutto dell’osservazione empirica e della classificazione razionale dei tributi esistenti in un dato ordinamento.
Ma nel nostro ordinamento, almeno dal 1997 in avanti, la periodicità rileva in un modo diverso.
I tributi periodici, in quanto tali, sono divenuti essi stessi, infatti, elemento di determinate fattispecie. Ci sono, cioè, regole che si applicano ai tributi periodici e non altri tributi. Quindi, un determinato effetto consegue solo in relazione a una determinata fattispecie consistente nella natura periodica del tributo.
Le ipotesi, come sappiamo, sono almeno due: quella di cui all’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 472 del 1997, dettata in tema illecito continuato, e quella di cui all’art. 3, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente.
L’interprete, quando si trova dinanzi a queste disposizioni, deve porsi in primo luogo la seguente domanda: qual è il senso dell’espressione impiegata dal legislatore secondo la ratio della norma?
L’approccio dell’interprete è, quindi, totalmente diverso da quello seguito dalla dottrina nell’elaborazione delle categorie.
La dottrina, infatti, muove dall’osservazione delle varie discipline, intravede alcune costanti e forgia, sulla base di tali constatazioni, talune categorie che, se costruite bene ed opportunamente, servono a formulare meglio i propri ragionamenti.
Nelle ipotesi in cui, invece, vi è una specifica previsione normativa, il procedimento prima indicato non è applicabile.
Si deve prendere le mosse dalla ratio della norma e non si può attribuire a nessun termine un significato predefinito, tantomeno se esso era, fino a quel momento, il frutto di un’operazione “dottrinale”.
Certamente, il riferimento alle elaborazioni della dottrina può essere un punto di riferimento, ma non è mai un vincolo. E, se la ratio normativa lo richiede, è ben possibile che, per rimanere al nostro caso, alla locuzione “imposte periodiche” si attribuisca un significato che la dottrina non aveva neppure ipotizzato.
5. Periodicità del tributo e retroattività
La carenza motivazione della sentenza in esame non dipende, allora, dal fatto che essa non abbia chiarito perché non è stata scelta alcuna delle nozioni di periodicità corrispondenti alle categorie dottrinali. Il vizio segnalato consiste, piuttosto, nella assenza di ogni spiegazione della scelta effettuata secondo la ratio della norma considerata.
L’art. 3, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente contiene due norme.
La prima è data dalla disposizione che esprime in termini di mero divieto ciò che l’art. 11 delle preleggi stabilisce tanto in termini positivi che in negativo. L’art. 11 disp. prel. c.c. afferma, infatti, che la «legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo». L’art. 3, comma 1, primo periodo, si limita a vietare la retroattività, ma questo implica di per sé la regola dell’efficacia solo per l’avvenire della legge tributaria. E ciò vale per la generalità delle norme tributarie.
La seconda disposizione – contenuta nel secondo periodo dell’art. 3, comma 1, secondo periodo, dello Statuto – introduce una specificazione (forse un “rafforzamento”) della regola implicitamente recata dal periodo precedente. Infatti, essa non solo stabilisce che le norme tributarie relative ai tributi periodici operano non solo da un momento successivo alla loro entrata in vigore, ma colloca anche tale momento iniziale futuro nel successivo periodo d’imposta.
L’interrogativo che deve porsi l’interprete per attribuire un senso all’espressione “tributi periodici” è duplice. Esso riguarda, da un lato, il valore che l’art. 3, nel suo complesso, intende attuare e tutelare e, dall’altro lato, le ragioni per le quali, rispetto a determinati tributi (quelli, cioè, contraddistinti dall’elemento della “periodicità”), la tutela di tale valore impone di non limitarsi a prescrivere l’efficacia della legge solo pro futuro e di specificare il differimento della stessa al periodo d’imposta successivo.
Ci si permetta di ricordare, al riguardo, che la retroattività della legge non è un male in sé o in assoluto.
Talvolta essa è assolutamente necessaria: il caso classico è quello della legge che dichiara illegittimo l’assoggettamento a schiavitù e che sarebbe del tutto incongruo rendere efficace solo per … l’assoggettamento futuro.
Altre volte la retroattività è ritenuta la soluzione ottimale, come avviene nei casi di abolitio criminis.
Talvolta la retroattività è semplicemente inconcepibile. Si suole richiamare, come esempio altrettanto classico, quello della legge canadese istituente il divieto di pubblicazione delle leggi in una sola lingua. Se tale divieto fosse stato introdotto retroattivamente avrebbe comportato la cancellazione di tutto il sistema legislativo precedente.
Altre volte la retroattività è considerata negativamente, come avviene per l’introduzione di nuove norme incriminatrici, ma non in modo assoluto, essendo ammessa la retroattività nel caso di delitti particolarmente ripugnanti come i crimini contro l’umanità.
Insomma, tutto dipende dai contrapposti valori in gioco.
Il tema dell’art. 3, comma 1, secondo periodo, dello Statuto non può essere affrontato in questa sede.
Ciò che possiamo dire è che non si può definirne la fattispecie – cioè non si può stabilire quali sono i tributi periodici in presenza dei quali è prescritto il differimento al periodo d’imposta successivo dell’efficacia delle leggi – se non si parte dalla ratio della norma.
Esercizio, questo, evidentemente complesso, privo di esiti univoci e fondato in parte su un ragionamento “circolare”, giacché la comprensione della ratio serve a definire l’ambito di applicazione della norma, ma, al tempo stesso, l’individuazione dell’ambito di applicazione della norma è necessaria al fine di chiarirne la ratio.
Ma questo rende ancor più manifesto il vizio di motivazione della sentenza. Essa giunge a un esito che potrebbe anche essere compatibile con l’art. 3 dello Statuto. Ma questo esito si presenta privo di qualsiasi giustificazione.
E quello di decidere un caso in via definitiva e senza ulteriori giustificazioni è un privilegio del legislatore, non del giudice.
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