UN CASO DI INAMMISSIBILITA’ “ATIPICA” DELL’INTERPELLO
Tempo di Lettura: 6 minutiCommento alla Risposta n. 529 del 2019
1. La particolarità della Risposta n. 529/2019
La risposta a interpello che qui si segnala è certamente interessante sotto il profilo delle questioni sostanziali esaminate; tuttavia il motivo per il quale ci sembra opportuno attirare l’attenzione sulla stessa riguarda un profilo “procedurale”.
L’Agenzia, dovendo rispondere a un’istanza di interpello volta alla disapplicazione della disposizione che limita il riporto delle perdite nell’ambito delle operazioni di fusione (ossia il ben noto art. 172, comma 7, del t.u.i.r.) prende in esame e fornisce la propria risposta solo rispetto a una delle questioni disapplicative proposte dall’istante (quella relativa alla riportabilità delle perdite dell’incorporante).
L’istante aveva tuttavia proposto l’interpello anche al fine di veder disapplicata la medesima disposizione relativamente alle perdite dell’incorporata.
Sul punto, l’Agenzia afferma che «In proposito, la scrivente non può rilasciare il parere richiesto in merito alla disapplicazione del citato articolo 172, comma 7, del TUIR, atteso che occorrerebbe verificare fatti e circostanze che hanno determinato […] Tenuto conto dell’impossibilità, in questa sede, di valutare se le perdite di cui si tratta possano essere computate in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi, l’istanza di interpello in esame volta alla valutazione della disapplicazione del riporto delle stesse è da ritenersi inammissibile, con la conseguenza che, in ogni caso, non si producono a tal riguardo gli effetti di cui al comma 3 del citato articolo 11 [dello Statuto]».
Abbiamo, dunque, una dichiarazione di “inammissibilità” dell’istanza per impossibilità di decidere il caso.
Ora, sul punto, dobbiamo fin da subito denunciare che noi stessi, già all’indomani della riforma del 2015, avevamo prospettato il caso dell’interpello “indecidibile” ipotizzando che, in questa situazione, l’Agenzia potesse emettere qualcosa di simile a una pronuncia di inammissibilità (cfr., G. Fransoni, Qual vaghezza …. Considerazioni sui presupposti dell’interpello qualificatorio, in Rass. trib., 2016, 570 ss.).
Più di recente, tuttavia, abbiamo rivisto la nostra posizione e l’occasione di questa risposta a interpello – che dimostra almeno come l’ipotesi prospettata non fosse puramente fantasiosa – offre lo spunto per chiarire la questione.
2. Obbligo di provvedere, indecidibilità del caso e (insussistenza del) divieto di non liquet.
Il procedimento d’interpello presenta molte affinità con i procedimenti giurisdizionali.
Nell’uno e nell’altro caso il procedimento è avviato a istanza di parte e tale istanza è costitutiva di un duplice obbligo.
Innanzi tutto, vi è l’obbligo di procedere: una volta che l’azione giudiziale sia stata promossa o che l’istanza d’interpello sia stata presentata il giudice, nel primo caso, o l’amministrazione, nel secondo, devono avviare il relativo procedimento.
In secondo luogo, vi è l’obbligo di provvedere nel merito. Questo obbligo, tuttavia, sussiste solo se l’azione è ritualmente promossa o l’istanza di interpello è validamente presentata.
Se non vi è una valida presentazione dell’istanza o una rituale proposizione dell’azione il procedimento o il processo si arrestano senza un provvedimento di merito, ma solo con un provvedimento in rito.
Torneremo fra breve sui casi in cui, per effetto dell’invalidità dell’istanza o di irritualità dell’azione, il procedimento amministrativo o giudiziale si concludono con un (mero) provvedimento in rito.
Per il momento è importante segnalare che, nei casi in cui il procedimento non si concludono in rito e, quindi, è costituito oltre al dovere di procedere anche il dovere di provvedere, l’ordinamento, al fine di garantire che tale obbligo di provvedere possa essere assolto ha disposto, nell’ambito della disciplina processuale, due regole.
La possibilità di decidere una controversia è necessario che il giudice possa individuare la norma applicabile e accertare i fatti cui la norma deve essere applicata.
Per garantire tale possibilità, allora, l’ordinamento ha previsto, da un lato, il principio iura novit curia, secondo il quale il giudice è del tutto libero nell’individuazione della norma applicabile (salva l’esigenza di stimolare il contraddittorio sulla questione di diritto se questa fosse diversa da quella indicata dalle parti) e, dall’altro lato, una regola residuale relativa alla prova dei fatti, ossia la regola dell’onere della prova tale per cui, se la parte onerata non prova il fatto allegato, esso si ritiene non esistente.
Cosicché, o per il tramite dell’attività delle parti o per effetto dell’operare delle due regole prima indicate, nessun giudice può dire di non essere in grado di individuare la norma applicabile o di accertare i fatti rilevanti.
Di qui, nasce il divieto di non liquet nel processo.
Ora, nessuna delle due regole predette è operante nel procedimento d’interpello e quindi l’amministrazione può, effettivamente, trovarsi nella situazione di non poter decidere specialmente perché può essere effettivamente difficile stabilire, allo stato degli atti, se i fatti siano effettivamente sussumibili in una determinata norma (non vi è, invece, il problema di individuare la norma applicabile, perché il procedimento d’interpello ha ad oggetto proprio l’interpretazione e l’applicazione di una specifica norma individuata dall’istante).
Da questo punto di vista, possiamo quindi dire con sufficiente certezza che l’amministrazione nel procedimento d’interpello non è soggetta al divieto di non liquet.
Diversamente dal giudice, essa, cioè, può effettivamente trovarsi nella condizione – emblematicamente rappresentata dalla risposta in esame – di non sapere e, quindi, di non poter dare una risposta.
Da questo punto di vista, riteniamo che non possa muoversi all’Agenzia alcun appunto per il fatto di aver dato atto, nella risposta, della sua impossibilità di decidere.
3. Il provvedimento che chiude il procedimento per “indecidibilità del caso”.
Resta, però, un problema – che non è solo formale –, ossia quello di individuare quale forma deve assumere il provvedimento emesso dall’Agenzia quando tale situazione si verifica.
Nel caso di specie, come abbiamo visto, il provvedimento ha assunto la forma di una dichiarazione di inammissibilità e, al riguardo, crediamo di dover dissentire dalla soluzione prescelta dall’Agenzia.
Ritornando a quanto abbiamo detto in precedenza, una volta costituito l’obbligo di procedere, il procedimento prende comunque avvio salvo chiudersi con un provvedimento in rito se l’istanza è invalida.
L’invalidità dell’istanza può dipendere da due cause: il diritto potestativo d’interpello è stato esercitato in carenza dei suoi presupposti, oppure il diritto potestativo (pur sussistendo i relativi presupposti) è stato esercitato in modo scorretto.
Già da questa enunciazione, si comprende come l’invalidità dell’istanza sia essenzialmente una questione legale. È la legge che fissa i presupposti per l’esistenza del diritto potestativo di interpello e le modalità del suo esercizio.
Nel sistema del procedimento d’interpello, tale funzione è assolta dall’art. 5 del d.lgs. n. 156 del 2015 che individua, appunto, le ipotesi di inammissibilità.
Al riguardo, la Circ. 9/E del 2016 ha precisato che le cause di inammissibilità delle istanze previste dall’art. 5 cit. devono ritenersi tassative.
In realtà, questa affermazione è, probabilmente, eccessiva per le cause di inammissibilità che consistono nella carenza dei presupposti per la proposizione dell’istanza (ossia per carenza della fattispecie costitutiva del diritto d’interpello). Per esempio, l’art. 5 non contempla, fra le cause di inammissibilità, la carenza di legittimazione. Ma, a nostro avviso, è il sistema stesso che obbliga a ritenere che, dinanzi a un interpello presentato da un soggetto che difetta di legittimazione (ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 156 del 2015), non vi è l’obbligo di provvedere nel merito e, quindi, l’amministrazione deve dichiarare l’inammissibilità dell’istanza.
Viceversa, l’elenco delle cause di inammissibilità dell’istanza per difettoso esercizio del diritto potestativo d’interpello – ossia le ipotesi considerate dall’art. 5, comma 1, lett. a) (mancata indicazione delle generalità del contribuente e mancata descrizione circostanziata della fattispecie), alla lett. d) (reiterazione dell’istanza) e alla lett. g) (mancata integrazione nei termini previsti dei dati richiesti dall’art. 3 del d.lgs. n. 156 del 2018) – deve considerarsi effettivamente tassativo proprio secondo quanto indicato dall’Agenzia nella Circolare 9/E del 2016.
Nel caso di specie (e, in generale, in tutti i casi nei quali la questione prospettata nell’istanza risulta “indecidibile”) non si poteva dire esistente una carenza del diritto potestativo di interpello, né esso era riconducibile a uno dei casi di erroneo esercizio del diritto ai sensi dell’art. 5 cit.
Questo significa, per un verso, che non era possibile dichiarare l’istanza di interpello inammissibile e, per altro verso e da un punto di vista più generale, che vi era l’obbligo di provvedere nel merito.
Quest’ultimo punto è molto importante perché la disciplina del procedimento d’interpello contiene una regola che “sanziona” l’inosservanza del dovere di provvedere nel merito là dove l’interpello non possa giudicarsi inammissibile. Si tratta, com’è evidente, della regola del silenzio assenso.
Il silenzio assenso opera là dove l’amministrazione non provveda nel merito entro i termini previsti, salvo il caso in cui non vi sia una causa di inammissibilità. Detto diversamente, la presenza di una causa di inammissibilità determina, come abbiamo detto, l’insussistenza dell’obbligo di provvedere nel merito. Ma in tutti i casi in cui tale causa di inammissibilità non sussiste (ancorché sia stata formalmente dichiarata) o l’amministrazione provvede nel merito, oppure si forma il silenzio assenso.
Sembrerebbe, quindi, di trovarsi in una impasse: come abbiamo detto, possono esistere casi “indecidibili”, ma questi non costituiscono cause di inammissibilità e, quindi, anche in loro presenza, l’amministrazione deve provvedere nel merito.
La via d’uscita da questo apparente vicolo cieco consiste nell’ammettere che, in tali situazioni, l’amministrazione possa (e debba) emettere un provvedimento di merito negativo. Ossia negare la fondatezza della soluzione prospettata dall’istante.
A bene vedere, infatti, la disciplina dell’interpello non predetermina il contenuto dei provvedimenti di non accoglimento i quali, a nostro avviso, possono assumere due contenuti diversi: per un verso, l’amministrazione può non accogliere la soluzione prospettata nell’istanza perché ritiene preferibile una soluzione diversa, per altro verso, il non accoglimento può essere determinato dalla mera “indecidibilità” del caso.
I due provvedimenti, pur essendo entrambi di merito (negativo), avranno anche un’efficacia distinta sia per ciò che attiene al vincolo per l’amministrazione (p.es. la indicazione di una soluzione diversa da quella prospettata dal contribuente vincolerà comunque l’amministrazione a non adottare in sede di accertamento una terza soluzione ancora diversa), sia per ciò che attiene alla posizione del contribuente (p.es. per ciò che attiene ai limiti che egli potrebbe incontrare in sede di reiterazione dell’istanza).