Guglielmo Fransoni

CESSIONI DI PARTECIPAZIONI E DISCIPLINA FISCALE DELLE INDENNITA’ PER VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI GARANZIA DEL VENDITORE

Commento a Cass. civ., sent. 13 agosto 2020, n. 17011


1. I termini del problema

Nel precedente intervento dedicato alla medesima sentenza (cfr., G. Fransoni, Il principio di derivazione rafforzata secondo la Corte di Cassazione consultabile qui) abbiamo visto che la Corte Suprema, in questa importante sentenza, qualifica l’art. 83, comma 2, del t.u.i.r. come un norma di rinvio per effetto della quale i principi contabili IAS/IFRS vengono inseriti, quali norme, nel sistema dell’imposizione dei redditi d’impresa

Questa affermazione della Corte, pur essendo importante sotto vari profili, non è, nell’economia della sentenza, il punto di arrivo del ragionamento. Essa, al contrario, funge da premessa, secondo l’iter logico prescelto dai giudici di legittimità, per risolvere un problema di grande importanza pratica (oltre che teorica).

Il problema è quello del regime fiscale, ai fini i.re.s., delle indennità corrisposte dal venditore all’acquirente di una partecipazione in società a seguito della violazione delle garanzie prestate.

In particolare, dal suddetto inquadramento del principio di derivazione rafforzata la Corte fa infatti seguire, poi e nell’ordine, una prima conseguenza attinente alla rilevanza, alla luce di tale principio, della “compensazione” fra componenti attivi e passivi di reddito (ove eventualmente ammessa o imposta dai principi contabili internazionali) e, successivamente, una volta negata l’applicazione del principio di derivazione a tale “compensazione”, l’inquadramento delle indennità in questione alla luce delle sole disposizioni del Testo unico delle imposte sui redditi.

Sebbene l’ordine logico appena descritto non sia inaccettabile, crediamo che, per motivi di chiarezza, le due ultime questioni possano essere più proficuamente affrontate nell’ordine inverso.

Detto diversamente, ci sembra che la soluzione del problema di fondo possa essere raggiunta in modo più chiaro – e anche su basi più sicure – se si affronta, per prima cosa, il tema della “ordinaria” qualificazione delle indennità in questione secondo la disciplina del Testo unico delle imposte sui redditi per poi porsi il problema se, per i soggetti IAS compliant, come tale regime “ordinario” risulti, eventualmente, modificato per effetto dei principi contabili applicabili contenenti regole di “qualificazione” o di “classificazione” in virtù del rinvio mobile (o recettizio) operato dall’art. 83, comma 2, del t.u.i.r. (secondo l’inquadramento condivisibilmente sostenuto dalla Corte Suprema di Cassazione).

La preferenza per un diverso ordine di esame delle questioni è giustificata da due diverse considerazioni.

La prima è che la questione della “compensazione” (intesa, come è evidente, quale “compenso di partite” secondo l’accezione di cui all’art. 2432-ter, comma 6, c.c.) eventualmente consentita o imposta dai principi contabili IAS/IFRS diventa specificamente rilevante là dove, come nel caso di specie, la suddetta “compensazione” interviene fra un componente negativo (le imposte sul reddito) non deducibile dal reddito d’impresa e un componente positivo (l’indennità, per l’appunto) ipoteticamente imponibile. Si tratta, quindi, di un caso specifico, per affrontare il quale occorre mettere a fuoco, preventivamente, la regola generale.

La seconda considerazione è che, come vedremo, il tema dell’inquadramento dei principi contabili che ammettono o impongono la compensazione non si presta a soluzioni del tutto univoche.

Più specificamente, ci sembra che la questione relativa alla natura dei principi contabili che ammettono o impongono la “compensazione” – ossia se essi siano regole di “qualificazione”, di “classificazione” o “meramente valutative” – non si presti ad essere risolta in modo del tutto univoco e ciò diversamente da quanto ritiene la Corte Suprema (ed è questo, a nostro avviso, l’unico punto critico della sentenza in commento). Di conseguenza, non è univocamente determinabile se il rinvio operato dall’art. 83, comma 2, del t.u.i.r. abbracci anche tali principi (imponendone la prevalenza rispetto alle regole contenute nel Testo unico medesimo), oppure no.

2. Il regime “ordinario” degli indennizzi per la società acquirente

La Corte Suprema di Cassazione, nell’affrontare il tema della disciplina “ordinaria” degli indennizzi, fa tre affermazioni molto interessanti e, a nostro avviso, assolutamente condivisibili.

A) In primo luogo, essa chiarisce che la disciplina contrattuale delle garanzie deve essere tenuta ben distinta dalla disciplina contrattuale del prezzo.

Il punto è di estrema importanza in quanto un approccio eccessivamente (e, quindi, erroneamente) “sostanzialistico” ha spesso portato a confondere i due aspetti.

È chiaro, infatti, che l’effetto tanto delle c.d. “clausole di aggiustamento del prezzo”, quanto delle clausole di indennizzo (in relazione alla violazione delle garanzie contrattuali) consiste nel determinare una modifica della somma complessivamente incassata da venditore.

Ma avere riguardo alla “sostanza-economica” delle operazioni – come ormai dovrebbe essere noto – non significa affatto prescindere totalmente dalla realtà giuridica, significa solo tener presente la medesima realtà da un diverso punto di vista.

In questa prospettiva, non si può dimenticare una circostanza che, evidentemente, è invece ben presente alla Corte di Cassazione. Ossia che, secondo l’orientamento ormai fermissimo della giurisprudenza di legittimità, nella compravendita di partecipazioni la garanzia che il venditore rilascia relativamente alla condizione economica e patrimoniale della società le cui partecipazioni costituiscono oggetto della compravendita (cioè della c.d. società target) non costituisce mera specificazione e puntualizzazione delle ordinarie garanzie del venditore per i “vizi” della “cosa” venduta. L’oggetto della compravendita, secondo la nostra giurisprudenza, è costituito dalle azioni o quote di partecipazioni e i vizi potrebbero riferirsi solo a queste. Conseguentemente, le garanzie relative alla condizione patrimoniale della società target – ossia quelle relativi all’insussistenza di passività o all’esistenza delle attività indicate nella situazione patrimoniale di riferimento, nonché quelle relative all’andamento economico della società medesima – costituiscono garanzie autonome che, secondo tale orientamento, possono essere ricondotte a obblighi di natura, in senso lato, “assicurativa”.

Questa ricostruzione – per la quale, in un’ottica tributaria, si vedano le considerazioni, pienamente convergenti con quelle cui oggi perviene la Cassazione, di G. Fransoni, Note in tema di compravendita di partecipazioni e regime fiscale delle somme corrisposte per la violazione delle clausole di garanzia, in Dir. prat. trib., 2012, 1055 e A. Silvestri, La fiscalità delle garanzie del venditore nella cessione di partecipazioni, in Riv. dir. trib., 2017, I, 191) – è espressa dalla Corte Suprema di Cassazione nel modo più esplicito.

Afferma, infatti, la Corte che, a differenza di «una c.d. “clausola di aggiustamento del prezzo”, con la quale si correla il corrispettivo dell’acquisizione, o parte di esso, a determinati eventi futuri legati all’andamento economico-finanziario della società oggetto di acquisizione, predeterminando un’eventuale rettifica, in aumento o in diminuzione, del prezzo di cessione della partecipazione», con la clausola di garanzia «il cedente assume un autonomo e specifico obbligo di indennizzo (altrimenti estraneo all’oggetto della garanzia legale cui il venditore è tenuto nei confronti del compratore) rappresentato dal reintegro, totale o parziale, di passività sopravvenute, usualmente di natura fiscale, riferibili alla gestione anteriore all’acquisto». Cosicché, tale clausola «ha quindi una funzione sostanziale di garanzia, di tipo assicurativo, e l’obbligazione che ne deriva a carico del cedente è finalizzata a tenere il cessionario indenne dagli effetti pregiudizievoli, sulla consistenza patrimoniale della società, derivanti dal fatto predeterminato».

Dalla precedente affermazione discende, quindi, che la prestazione (di norma pecuniaria) cui il venditore è tenuto per effetto della violazione della clausola di garanzia non incide sul prezzo – ancorchè essa modifichi, naturalmente e con ogni evidenza, il risultato complessivo delle attribuzioni patrimoniali conseguenti alla compravendita – ma si configura come una vera e propria prestazione indennitaria.

B) A questa prima conclusione fa seguito l’ulteriore affermazione della Corte, la quale riconduce tale vicenda economica nella categoria delle c.d. sopravvenienze attive “assimilate” di cui all’art. 88, comma 3, lett. a), del t.u.i.r.

La distinzione fra le sopravvenienze attive “in senso proprio” (disciplinate dall’art. 88, comma 1, del t.u.i.r.) e quelle “assimilate” (di cui al successivo terzo comma) è assolutamente tradizionale nel nostro sistema.

A dire il vero, però, l’attenzione degli studiosi si è sempre concentrata sulle ipotesi contemplate dall’art. 88, comma 3, lett. b) del t.u.i.r., cioè sui contributi, i quali formano oggetto di una letteratura cospicua.

Viceversa, alle sopravvenienze attive “assimilate” costituite dalle «indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, di danni diversi da quelli considerati alla lettera f) del comma 1 dell’articolo 85 e alla lettera b) del comma 1 dell’art. 86» si riserva scarsa attenzione. Di norma i manuali e le voci enciclopediche si limitano a dedicare a tale fattispecie poche righe indicando, quale caso tipico, il risarcimento del danno all’immagine o quello derivante da atti di concorrenza sleale o, ancora, da violazione del patto di esclusiva.

Di recente, poi, il legislatore è intervenuto sul tema con una norma di (pseudo) interpretazione autentica – recata dall’art. 1, comma 431, della l. 27 dicembre 2019, n. 160 – intesa ad escludere l’imponibilità alla stregua dell’art. 88, comma 3, lett. a), del t.u.i.r. delle somme liquidate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

La condivisibile lettura proposta ora dalla Corte Suprema di Cassazione legittima adesso l’inclusione in tale categoria anche della fattispecie – che costituirà anche l’ipotesi di più frequente verificazione – degli indennizzi percepiti dall’acquirente di una partecipazione a seguito della violazione delle clausole di garanzia.

C) Giunta a questo punto la Cassazione compie il passo decisivo del suo argomentare.

Come abbiamo più volte ricordato, il problema concretamente sottoposto al suo esame riguardava un indennizzo corrisposto in ragione della sopravvenienza di una passività fiscale a carico della società le cui partecipazioni erano state oggetto di compravendita.

La questione di fondo era, quindi, se l’indennizzo potesse considerarsi imponibile ancorchè si trattasse di un componente positivo correlato a una sopravvenienza pacificamente indeducibile (trattandosi di una passività fiscale relativa a imposte sul reddito).

La soluzione cui perviene la Corte è di negare che la qualificazione (in termini di deducibilità o meno) della vicenda economica costituente l’evento dannoso cui si correla la prestazione indennitaria rivesta alcuna rilevanza ai fini della qualificazione (in termini di imponibilità o meno) dell’indennizzo.

I giudici di legittimità, dopo aver qualificato come “suggestiva” la difesa della società fondata sul principio di “simmetria”, affermano correttamente che la sopravvenienza fiscale deve considerarsi solo come «l’evento al cui verificarsi si era prodotta la lesione della consistenza patrimoniale da ristorare (ed in tale prospettiva, peraltro, l’indeducibilità delle imposte dovute dalla cessionaria costituiva piuttosto un presupposto dell’indennizzo, poiché stabilizzava definitivamente il relativo effetto patrimoniale negativo). Pertanto, sulla mera base della parziale coincidenza solo quantitativa tra debito fiscale sopravvenuto ed indennizzo, non può assumersi l’irrilevanza fiscale di quest’ultimo, facendo leva sulla natura di costo indeducibile della passività fiscale che lo ha reso dovuto, attivando la relativa clausola».

Questa conclusione appare condivisibile per più ragioni.

La prima dipende dalla considerazione, assolutamente pacifica in dottrina, secondo la quale le sopravvenienze attive “assimilate” si distinguono da quelle “proprie” precipuamente per la circostanza di non essere caratterizzate dalla loro diretta correlazione rispetto a vicende economiche fiscalmente rilevanti.

Mentre rispetto alle sopravvenienze attive “proprie”, infatti, è decisivo, per la loro rilevanza fiscale, sia il fatto che esse si contrappongano a una vicenda economica di segno opposto, sia che tale contrapposta vicenda avesse avuto altresì rilevanza fiscale (concorrendo a formare, cioè, la base imponibile alla stregua di un componente negativo deducibile), viceversa, la rilevanza fiscale delle sopravvenienze attive “improprie” prescinde totalmente da qualsivoglia considerazione sia dell’esistenza di una contrapposta vicenda economica, sia (e soprattutto) dell’eventuale rilevanza fiscale (come componente negativo del reddito d’impresa) della vicenda medesima (che, per l’appunto, potrebbe anche mancare).

In secondo luogo, il destinatario dell’indennizzo è, di norma, la società acquirente, ossia un soggetto diverso da quello nel cui patrimonio si verifica la vicenda che rende azionabile la clausola di garanzia e fa sorgere il diritto all’indennizzo. E non vi è dubbio che, in tale circostanza, l’imponibilità dell’indennizzo non può che prescindere, per definizione, dal regime fiscale della vicenda economica la quale incide, invece, sulla consistenza patrimoniale della società target. Al limite, la deducibilità o meno di quest’ultima vicenda può influire – alla stregua di quanto viene spesse volte previsto nelle clausole contrattuali – sull’entità dell’indennizzo (perché l’eventuale deducibilità della “sopravvenienza” riduce il pregiudizio subito dalla società target), ma si tratta di profilo tutt’affatto diverso (e collocato a monte) rispetto a quello dell’imponibilità dell’indennizzo per la società acquirente.

Ed è evidente, in terzo luogo, che il discorso non dovrebbe atteggiarsi diversamente nel caso in cui, come spesso avviene per effetto di specifiche clausole contrattuali, il compratore corrisponda l’indennizzo direttamente alla società target come appunto è avvenuto nel caso oggetto della controversia decisa dalla Corte di Cassazione.

In questo caso, a dire il vero, il discorso si complica notevolmente perché la ricostruzione di una simile vicenda – tanto in termini giuridici, quanto in termini economico-sostanziali – è certamente meno lineare (e mai pienamente approfondita: si vedano però le puntuali osservazioni di A. Silvestri, La fiscalità delle garanzie del venditore nella cessione di partecipazioni, in Riv. dir. trib., 2017, I, 191).

Probabilmente, ancorché finanziariamente il rapporto si svolga solo fra il venditore (che paga l’indennizzo) e la società target (nel cui patrimonio confluisce l’indennizzo), la vicenda meriterebbe di essere considerata (e contabilizzata) in modo più articolato, ossia come un indennizzo a favore del compratore congiunto a un’erogazione di quest’ultimo a favore della società target la quale (erogazione) è posta in essere, però, dal venditore in virtù di una delegazione di pagamento. E tale erogazione (dell’acquirente a favore della società target per il tramite del venditore) sembrerebbe suscettibile di plurime qualificazioni in ragione anche degli accordi fra la società acquirente e quella dalla stessa partecipata (e acquistata).

Tuttavia, senza voler entrare nel merito di tale questione – la cui soluzione, come abbiamo detto, potrebbe variare caso per caso – resta fermo che la natura e la qualificazione fiscale dell’evento dannoso oggetto di ristoro mediante l’indennizzo non reagisce in alcun modo sul regime fiscale dell’indennizzo medesimo.

3. Il regime fiscale degli indennizzi per il venditore

Le conclusioni cui perviene la Corte di Cassazione sono peraltro utili anche per risolvere un problema diverso, ma strettamente connesso al primo; ossia, in particolare, il regime degli indennizzi derivanti dall’attivazione delle clausole di garanzia nella compravendita di partecipazioni per il soggetto che è tenuto a pagarli.

Com’è noto, nella disciplina delle sopravvenienze passive manca una previsione analoga a quella di cui all’art. 88, comma 3, lett. a), del t.u.i.r.

L’art. 101, comma 4, del t.u.i.r. disciplina, infatti, solo le sopravvenienze passive “proprie” con una formula che ricalca, sostanzialmente “a specchio”, l’art. 88, comma 1, del t.u.i.r.

Questo non ha impedito alla dottrina di affermare, giustamente, che anche le sopravvenienze passive “improprie” sono deducibili.

E ciò, sia per l’operare dell’inespresso principio di simmetria (che in questo caso apparirebbe evocato maggiormente a proposito); sia perché (e questa ci pare la considerazione decisiva) le norme sui componenti negativi di reddito non possono essere lette indipendentemente dalle regole sulla formazione del bilancio d’esercizio cui sono legate, come ribadisce anche in questo caso la Cassazione, da un rapporto di presupposizione.

Proprio in ragione del fatto che il punto di partenza nella determinazione del reddito d’impresa è il bilancio di esercizio, le disposizioni relative ai componenti negativi non sono dirette, cioè, a individuare tassativamente i componenti negativi rilevanti, ma solo a integrare la presupposta disciplina del bilancio d’esercizio stabilendo limiti e condizioni per la deducibilità di taluni componenti negativi e, quindi, a individuare i casi in cui il risultato del bilancio deve formare oggetto di variazioni in aumento o in diminuzione.

Conseguentemente, la mancata menzione delle sopravvenienze passive “improprie” o “assimilate” non esclude affatto, quindi, la loro rilevanza nella determinazione del reddito imponibile.

Ferma restando tale conclusione di ordine generale, si potrebbe porre – ed è stato correttamente posto – il dubbio se la deducibilità possa essere esclusa proprio con riferimento alla specifica categoria di sopravvenienze passive “improprie” costituite dagli indennizzi corrisposti in dipendenza di violazione degli obblighi di garanzia relativi a cessioni di partecipazioni là dove la partecipazione oggetto di compravendita sia soggetta al regime della participation exemption.

Si tratta, cioè, di stabilire se gli indennizzi in questione siano da ritenere ricompresi ne “le spese e gli altri componenti negativi” riferibili a beni da cui derivano proventi “non computabili” nella determinazione della base imponibile in quanto “esenti” la cui deduzione risulterebbe pertanto preclusa dall’art. 109, comma 5, del t.u.i.r.

Si tratta di un tema che qui non può essere esaminato con il necessario approfondimento. Sembra sufficiente rilevare che, come è stato correttamente rilevato in dottrina, l’applicazione anche a questa ipotesi dell’art. 109, comma 5, del t.u.i.r., si risolverebbe nell’adozione di una nozione eccessivamente ampia di componenti negativi “riferibili” a beni da cui derivano componenti esenti che, come tale, non dovrebbe essere accolta.

E, in questo senso, la stessa nozione di indennizzo indicata dalla Corte di Cassazione – e, in specie, la sottolineatura della causa, in senso lato, assicurativa degli stessi – sembra offrire un valido argomento per rimarcare proprio quell’autonomia dell’indennizzo rispetto all’operazione di cessione della partecipazione che dovrebbe corroborare la tesi della sua esclusione dall’ambito di applicazione dell’art. 109, comma 5.

4. Conseguenze pratiche delle conclusioni delineate dalla Corte di Cassazione

L’inquadramento delineato dalla Corte di Cassazione poggia, quindi, su basi certamente solide e presenta un interesse teorico indiscutibile.

Ma è altrettanto indiscutibile il suo interesse pratico.

Invero, la ricostruzione proposta dovrà essere tenuta ben presente nella predisposizione delle clausole contrattuali che disciplinano le obbligazioni di garanzia del venditore e i conseguenti obblighi di indennizzo.

Alla luce della disciplina fiscale dell’indennizzo quale sopravvenienza attiva “assimilata” (e quindi imponibile), infatti, una quantificazione dell’indennizzo in misura esattamente equivalente a quella della “sopravvenienza” realizzata dalla società target potrebbe non costituire un integrale risarcimento del danno tutte le volte in cui l’effetto economico dell’evento pregiudizievole che determina l’attivazione della clausola di garanzia e indennizzo si qualifica come non deducibile o se la sua deducibilità comporta una riduzione dell’onere fiscale (per la società target) inferiore all’incremento di quello associato all’imponibilità dell’indennizzo per il soggetto che matura il diritto a essere indennizzato (per esempio perché la società acquirente che consegue l’indennizzo è soggetta all’addizionale i.re.s. a differenza della società target),.

Questa eventualità rende quindi necessaria la previsione contrattuale, ove si voglia ottenere un’esatta commisurazione dell’indennizzo a pregiudizio derivante dalle “sopravvenienze”, di un meccanismo di calcolo che tenga adeguatamente conto della “variabile fiscale”.

Ciò, in effetti, è quanto avviene in molti casi attraverso la previsione di clausole di gross up (o di lordizzazione) dirette, appunto, a rendere dipendente la quantificazione dell’indennizzo da più variabili, compresa quella relativa all’onere tributario associato tanto alla “sopravvenienza” che giustifica la corresponsione dell’indennizzo, quanto al regime fiscale dell’indennizzo medesimo.

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