1. Premessa
L’articolo 1 del disegno di legge intitolato “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari” contiene disposizioni “ordinamentali”. Si realizza così una riforma dell’assetto della giustizia tributaria che rappresentano un rilevantissimo progresso.
Le opinioni circa alcuni dettagli di questa disciplina potranno essere divergenti. Ma il giudizio complessivo non può che essere di grande e generalizzata soddisfazione.
Sul punto non ci sembra opportuno aggiungere altro, in attesa che si traduca in realtà una riforma auspicata da molto tempo.
Con le presenti osservazioni, vogliamo invece soffermarci sulle novità contenute nell’articolo 2 del disegno di legge. Esse riguardano alcuni specifici aspetti del rito processuale e crediamo di non dire nulla di inusitato affermando che, per questa parte, non si può parlare di una “riforma” del processo.
Il che, d’altra parte, non è affatto un male. Il processo tributario, dal punto di vista delle regole di svolgimento del giudizio, ha dato, infatti, una prova di sé tutt’altro che insoddisfacente.
Era giusto, quindi, limitarsi a ritocchi, senza la pretesa di innovare radicalmente la disciplina processuale.
Proprio perché si tratta di interventi specifici e autonomi – e non di tasselli interdipendenti di una complessiva riforma – le singole disposizioni di cui si compone l’art. 2 del disegno di legge possono formare oggetto di distinta considerazione.
Procedendo con ordine, è allora il caso di iniziare dall’art. 2, comma 1, il quale introduce nel c.p.c. un nuovo art. 363-bis rubricato “Principio di diritto in materia tributaria”.
2. Il contesto
Per comprendere adeguatamente la portata della nuova disposizione, occorre collocarla nel suo contesto.
Essa affiancherà, ovviamente, l’art. 363 c.p.c. il quale è rubricato “Principio di diritto nell’interesse della legge”.
Entrambe le disposizioni hanno lo stesso oggetto. In tutti e due i casi, infatti, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione è investito del potere di «chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto».
Se, dunque, il potere conferito al Procuratore Generale è il medesimo nei due casi, la differenza deve riguardare i presupposti.
Per il momento possiamo prescindere dal fatto che, per espressa previsione dell’art. 363-bis c.p.c., il principio di diritto da enunciare deve riguardare la “materia tributaria”. Questa limitazione, infatti, è la conseguenza di una più rilevante e decisiva diversità di presupposti.
Da questo punto di vista, è importante prendere in esame l’art. 363 c.p.c. per la parte in cui disciplina i casi nei quali la questione è attribuita alle sezioni unite.
Infatti, per i motivi che cercheremo di chiarire fra breve, il ricorso di cui all’art. 353 c.p.c. può essere deciso anche dalle sezioni semplici. Solo se la questione è “di particolare importanza” la relativa decisione è affidata alle sezioni unite.
Il procedimento delineato dall’art. 363-bis c.p.c. prevede, invece, che la questione sia sempre assegnata alle sezioni unite se ricorrono i relativi presupposti, altrimenti è dichiarata inammissibile.
Cosicché, se prescindiamo dalle ipotesi del ricorso nell’interesse della legge deciso dalle sezioni semplici, la situazione, ad un primo e superficiale esame, sembrerebbe porsi nei seguenti termini. Nell’interesse della legge il Procuratore Generale presso la Cassazione può chiedere con ricorso l’enunciazione di un principio di diritto sul quale decidono le sezioni unite:
- per qualsivoglia materia (compresa quella tributaria) se la questione è di particolare importanza;
- per la sola materia tributaria, se ricorrono i tre presupposti indicati dalle lett. da a) a c) del primo comma.
Se questa fosse la reale differenza, essa sarebbe di poco conto. Anche perché l’espressione “di particolare importanza” ci sembra ben più elastica dell’elencazione contenuta nell’art. 363-bis, comma 1, lett. a), b), c). Cosicchè, il potere attribuito al Procurato Generale, inteso in questo senso, sarebbe addirittura meno ampio, nella materia di tributaria, di quello allo stesso spettante per la generalità della materia.
Evidentemente, le cose non stanno così e, per comprendere la reale differenza, occorre muovere dalla considerazione delle ipotesi ordinarie di ricorso nell’interesse della legge. Ossia quelle nelle quali la richiesta del Procuratore Generale è decisa dalle sezioni semplici.
3. Il carattere “correttivo” e “non esplorativo” del ricorso di cui all’art. 363 c.p.c.
Da questo punto di vista, è evidente, ed è unanimemente condiviso in dottrina, che la richiesta di cui all’art. 363 c.p.c. deve essere ancorata sempre e indefettibilmente a uno specifico provvedimento giudiziale il cui contenuto necessita, a giudizio del Procuratore Generale, di essere “corretto”.
Non si tratta, per opinione pacifica, di un intervento impugnatorio. L’art. 363 c.p.c. è esplicito nel richiedere che il provvedimento (il cui contenuto si reputa necessario correggere) deve essere intangibile. Ai sensi dell’art. 363, primo comma, c.p.c. la richiesta deve riguardare un provvedimento che non deve essere stato impugnato o deve essere, ab origine, non impugnabile. L’esclusione del carattere impugnatorio è ribadita dal quarto comma dell’art. 363 c.p.c. ai sensi del quale «La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito».
Ma l’esclusione del carattere impugnatorio non implica affatto la negazione del diretto e necessario riferimento del giudizio a un provvedimento. Anzi, questo riferimento è enfatizzato dalla circostanza che la norma si preoccupa di disciplinare i caratteri che quel provvedimento deve avere. Se l’impugnabilità del provvedimento è un limite alla richiesta di enunciazione del principio di diritto, è evidente che quel provvedimento vi deve essere. E, più precisamente, è evidente che quel provvedimento deve costituire l’oggetto della richiesta.
Quindi, il Procuratore Generale non agisce per conoscere, in astratto, quale sia la corretta interpretazione di una norma. La sua richiesta è determinata dalla sussistenza di un caso specifico e concreto in cui della norma si è fatta, secondo la sua opinione, una scorretta applicazione.
Che le cose stiano in questi termini è un dato pacifico.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione fin da una delle primissime pronunce in materia.
In particolare, le sezioni unite, con la sentenza gennaio 2011, n. 404, hanno chiarito definitivamente che il Procuratore non può «trarre occasione o spunto da una causa (magari ben decisa) per sollecitare l’interpretazione della Corte su questioni astratte, o, in ogni caso, non pertinenti alla specifica vertenza [… in quanto la norma non consente …] interventi di tipo, per così dire, preventivo o addirittura esplorativo».
D’altra parte, che la funzione esplorativa sia estranea alla richiesta disciplinata dall’art. 363 c.p.c. è reso evidente dal lessico del legislatore.
Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere l’enunciazione non già di “un” (articolo indeterminativo) principio di diritto, ma solo de “il” (articolo determinativo) principio di diritto. Più in particolare, può chiedere alla Corte di cassazione qual è “il” principio di diritto al quale “il giudice di merito” (quindi, un giudice ben individuato) “si sarebbe dovuto attenere” (in una ben individuata pronuncia).
Il che, come diremo fra breve, consente di mantenere nell’ambito della giurisdizione contenziosa anche la sentenza resa nell’ipotesi considerata. Ciò in quanto la Corte di cassazione statuisce comunque in ordine alla soluzione giuridica del caso specificamente considerato, anche se rende una pronuncia che non modifica l’assetto sostanziale determinatosi a seguito del provvedimento reputato illegittimo dal Procuratore generale.
È una giurisdizione contenziosa perché la Cassazione risolve comunque un caso giudiziale ben determinato, anche se da questa soluzione non scaturiscono effetti pratici.
4. Il carattere esplorativo del ricorso di cui all’art. 363-bis c.p.c.
Ecco, allora, i dubbi spiegati.
Avevamo avvertito fin da subito la sensazione che la giustificazione del particolare potere attribuito al Procuratore generale ex art. 363-bis c.p.c. non potesse rinvenirsi nelle caratteristiche oggettive della “questione” sottoposta alle sezioni unite.
Non è rilevante che la questione sia “di particolare importanza” (come vuole l’art. 363 c.p.c.) o che sia di ardua soluzione, nuova e seriale (come richiede l’art. 363-bis c.p.c.). Queste sono formule che descrivono, con differenze di senso scarsamente rilevanti, un fenomeno che, se non è proprio il medesimo in senso assoluto, lo è quantomeno nella prospettiva della giustificazione del potere attribuito al Procuratore generale.
Ciò che è rilevante è l’obiettivo che si persegue con la richiesta di intervento delle sezioni unite.
Nel caso di cui all’art. 363 c.p.c., l’obiettivo è di correggere una decisione errata, sia pure senza effetti sostanziali.
Nel caso dell’art. 363-bis c.p.c., la finalità è quella di sollecitare una pronuncia che chiuda anticipatamente ogni disputa (anche prima che la disputa sia sorta). La funzione affidata alla Cassazione è quella di guidare e, tendenzialmente, vincolare ex ante tutti coloro che sono chiamati ad applicare la norma: giudici, amministrazione e contribuenti.
D’altronde questa finalità è trasparentemente espressa dalla Relazione là dove si afferma che «l’obiettivo degli istituti del rinvio pregiudiziale in cassazione e del ricorso nell’interesse della legge è quello di permettere che la Corte di cassazione affermi celermente, prevenendo un probabile contenzioso su una normativa nuova o sulla quale non si è ancora pronunziata la giurisprudenza di legittimità, una interpretazione chiara, capace di fornire indirizzi per il futuro alle Commissioni Tributarie, al contribuente e agli uffici dell’amministrazione».
Una funzione preventiva assistita da una sanzione per i giudici, i quali, come afferma ancora la Relazione, vanno incontro a «conseguenze in termini di responsabilità» ove rendano una «decisione di merito “difforme” dai precedenti della Corte di cassazione, soprattutto se pronunciati dalle Sezioni unite, “immotivata”, o “gratuita” o “immediata”».
5. Le criticità “ordinamentali” della nuova disciplina
Qualcuno potrebbe essere indotto ad applaudire dinanzi a questa scelta.
Si dirà, infatti, che non c’è nulla di meglio per assicurare la certezza del diritto che un autorevole intervento nomofilattico preventivo.
Dal nostro punto di vista, questa conclusione non appare del tutto scontata.
Ci sembra, in realtà, che il meritorio obiettivo di garantire la certezza del diritto è perseguito, in questo caso, al prezzo di una non trascurabile alterazione del ruolo proprio della Corte di cassazione. O meglio che, per raggiungere quell’obiettivo, si lasci troppo spazio alla tendenza della Corte (insopprimibile e a volte scopertamente manifestata) di occupare gli spazi propri di altre istituzioni.
La giustificazione di questa affermazione può essere qui solo accennata, ma questo accenno è comunque doveroso.
Una prima ragione di quanto si è appena detto è rinvenibile nel fatto che, in questo modo, vengono del tutto pretermessi i caratteri contenziosi della giurisdizione.
Come abbiamo detto, il principio di diritto enunciato nel caso dell’art. 363 c.p.c. è quello cui si sarebbe dovuto attenere il giudice nel pronunciare, in un’ipotesi ben determinata, uno specifico provvedimento giurisdizionale che si assume essere errato. Viceversa, nel caso dell’art. 363-bis c.p.c., si persegue l’obiettivo di ottenere un principio di diritto massimamente “astratto”, perché la sua enunciazione dovrebbe essere elaborata avendo riguardo a tutte le possibili controversie nelle quali la norma “nuova” dovrebbe trovare applicazione.
Ma una funzione giurisdizionale esercitata in modo avulso dalle peculiarità del singolo caso inevitabilmente si trasfigura assumendo sembianze molto prossime a quelle della funzione legislativa.
Oltre a invadere il campo della legislazione, la funzione giurisdizionale così esercitata, finisce, poi, per assumere su di sé anche alcune delle competenze oggi riconosciute come proprie dell’amministrazione.
A ben vedere, infatti, il ricorso del Procuratore generale acquista molti dei caratteri propri dell’interpello. Sono diverse certamente la veste dell’interpellante e quella del soggetto che rende la risposta, ma la funzione preventiva è analoga.
Vi è, infine, un aspetto che, a nostro avviso, è eccessivamente sottovalutato. Sebbene la dottrina s’incarichi di interpretate le norme in astratto – elaborando interpretazioni che aspirano a valere per tutti i casi possibili – la vera interpretazione è quella resa in concreto.
Di questo aspetto appare ben conscio lo stesso legislatore che, nel dettare la disciplina dell’interpello, ha imposto che lo stesso abbia ad oggetto «fattispecie concrete e personali».
Il rapporto fra il fatto e il diritto è, infatti, inscindibile. Il procedimento interpretativo non è mai davvero significativo, se non è anche adeguamento della norma alla fattispecie concreta. Si parla di circolo ermeneutico, sia perché l’interprete procede dalle parti al tutto e, poi, dal tutto alle parti; sia perché egli muove dal testo al contesto e dal contesto al testo.
Un’interpretazione che si propone di essere disancorata dal contesto non è davvero tale. E, da questo punto di vista, si torna alla prima obiezione. Quella, cioè, per cui la finalità di realizzare al massimo grado la funzione nomofilattica (o, forse, quella di sfoltire il numero dei ricorsi per cassazione?) spinge, almeno sulla carta, la Corte di cassazione a debordare dal suo ruolo specifico.
E ciò sarà tanto più vero, quanto più l’intervento della Corte di cassazione dovesse riguardare, come in teoria sarebbe favorito dall’art. 363-bis c.p.c., una norma “nuova”. Cioè una disposizione in relazione alla quale non esiste ancora una casistica sufficientemente ricca, non vi è ancora una elaborazione dottrinale sufficientemente matura e l’elaborazione giurisprudenziale si fonda su argomenti (delle parti e dei giudici) non ancora adeguatamente sedimentati.
Non si deve sottovalutare, poi, un altro aspetto critico.
L’art. 363-bis introduce una regola applicabile solo alla «materia tributaria» e ciò crea un doppio effetto “specializzante”. Da un lato, rende speciale il giudizio di cassazione relativo alle cause tributarie. Dall’altro lato, lato rafforza l’idea della specialità del diritto tributario in sé.
Ora, il diritto tributario è certamente speciale come lo è ogni altro diritto; non è speciale nel senso di essere diverso da tutti gli altri diritti.
Sembra, quindi, inopportuna e foriera di equivoci ogni regola che tende a includere il diritto tributario in una categoria a sé stante, in quanto contrapposta a quella della generalità dell’esperienza giuridica.
La scelta di accentuare la specializzazione del rito proprio della materia tributaria all’interno di una giurisdizione che dovrebbe essere generale per definizione appare altrettanto inopportuna. E, forse, non priva di profili di illegittimità.
6. Le condizioni di applicazione del nuovo istituto
In questo contesto, una volta che l’art. 363-bis c.p.c. sarà vigente non resterà che fare affidamento al rigore applicativo di un ufficio di grandi tradizioni qual è quello del Procuratore generale presso la Corte di cassazione (basti pensare al fatto che tale carica è stata ricoperta da un grandissimo giurista e politico del diritto qual è stato Ludovico Mortara).
La norma offre certamente uno spunto importante in tal senso. Occorre, a tal fine, far leva sui tre presupposti indicati nelle lettere da a) a c) del primo comma intendendoli come cumulativi e non alternativi.
La formula è ambigua sul punto.
Tuttavia, la previsione secondo cui la Corte di cassazione deve dichiarare inammissibile la richiesta «quando mancano una o più delle condizioni di cui al primo comma» può essere interpretata nel senso che anche la mancanza di una sola delle tre condizioni suddette determina l’inammissibilità. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che l’aggiunta di quel “o più” risulta, se si segue questa soluzione, del tutto pleonastica.
Non si può che auspicare, pertanto, che la cautela di cui deve essere circondata l’applicazione dell’istituto induca ad adottare la soluzione più restrittiva.
A questo auspicio si aggiunge quello del mantenimento della regola di trasparenza che la procura generale si è imposta con riguardo alla provenienza dell’impulso ad avanzare la richiesta di enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
È noto che l’art. 363 c.p.c. non dice nulla in merito alle modalità in base alle quali il Procuratore generale si determina ad avanzare la richiesta di enunciazione del principio di diritto.
Tale assenza di indicazioni ha fatto ritenere che l’impulso possa essere legittimamente fornito da chiunque: associazioni, singoli professionisti, istituzioni ed enti.
Di tali sollecitazioni la Procura generale presso la Corte di cassazione fornisce assai trasparentemente l’indicazione pubblicando sul suo sito sia i provvedimenti di archiviazione, sia quelli di accoglimento della richiesta, con l’indicazione dei nominativi e del ruolo rivestito da coloro che hanno sollecitato il Procuratore in tal senso.
Non ci sembra che possano esistere motivi per discostarsi da questa linea di condotta anche nel caso dell’art. 363-bis c.p.c.
Anche se questo, naturalmente, comporterà un significativo aumento del carico di lavoro dell’ufficio del Procuratore. O forse condurrà, secondo la più classica eterogenesi dei fini, a un numero di istanze tale da ingolfare completamente l’ufficio.