Guglielmo Fransoni

DAC 6: LA GENERICITA’ DELLA DISCIPLINA RENDE INDISPENSABILE IL SUO COMPLETAMENTO A LIVELLO INTERPRETATIVO

1. Le trasformazioni della Direttiva 2011/16/UE

La Direttiva 2011/16/UE – com’è noto – nasce essenzialmente per disciplinare le relazioni fra gli Stati membri e le relative amministrazioni fiscali.

La sua originaria finalità era quella di superare il modello tradizionale secondo cui gli Stati consideravano addirittura contrario ai propri interessi e alle proprie regole costituzionali l’esercizio dei poteri (di indagine e di raccolta d’informazione) dell’amministrazione finanziaria nell’interesse di un altro Stato.

La Direttiva (come già il suo precedente costituito dalla Direttiva 77/799/CEE) contrappone a questo modello il principio secondo il quale vi è, invece, un interesse comune di tutti gli Stati alla integrità dei sistemi fiscali di ciascun altro Stato e, conseguentemente, un interesse alla cooperazione amministrativa fra tutti gli Stati dell’Unione Europea: paradigmatico, in questo senso, è l’art. 9, lett. a) della Direttiva che legittima lo scambio spontaneo d’informazioni nel caso in cui uno Stato abbia «fondati motivi di presumere che esista una perdita di gettito fiscale nell’altro Stato membro». La “perdita di gettito fiscale” per uno Stato assume, quindi, rilevanza anche per gli altri Stati.

Questo impianto conduce a prevedere, quindi, la possibilità (oltre che dei predetti “scambi spontanei”), anche di scambi su richiesta o automatici o di indagini congiunte.

In ogni caso, si tratta sempre di obblighi gravanti sui singoli Stati.

Tuttavia, già la Direttiva 2014/107/UE, sul Common Reporting Standard, e, soprattutto, la Direttiva 2016/881/UE, che ha introdotto, modificando sempre la Direttiva 211/16/UE, l’obbligo del Country by Country Reporting a carico delle imprese multinazionali, hanno determinato un cambiamento profondo.

Agli obblighi reciproci degli Stati si sono affiancati quelli incombenti sui singoli contribuenti.

Con la c.d. DAC 6 – cioè, più precisamente, con la direttiva 2018/822 – il cambiamento diventa ancora più accentuato perché è più estesa la platea dei soggetti interessati e, almeno potenzialmente, si è significativamente incrementato il novero delle informazioni oggetto di comunicazione.

L’evoluzione delle forme di tutela degli interessi fiscali della comunità degli Stati comporta la nascita di nuovi obblighi a carattere individuale.

2. La necessaria precisa delimitazione delle fattispecie costitutive dell’obbligo in relazione all’art. 10 dello Statuto

Tutte le disposizioni che sono fonte di obblighi dovrebbero individuare in modo univoco la fattispecie costitutiva degli obblighi medesimi, cioè le situazioni di fatto al verificarsi delle quali sorge, in concreto, l’obbligo.

La norma, come sempre, opera a un livello astratto, ma la sua applicazione richiede di passare dall’astratto al concreto. Per applicare una norma occorre, in altri termini, stabilire se la concreta situazione di fatto che si verifica a livello individuale in un preciso punto del tempo e dello spazio corrisponde alla (è sussumibile nella) fattispecie astrattamente prefigurata dalla norma.

È evidente, quindi, che vi è sempre un’esigenza di individuare chiaramente e in modo inequivoco la fattispecie astratta. Se, questa esigenza non viene soddisfatta, l’applicazione della norma diventa problematica e questo ne pregiudica, in fin dei conti, l’effettività.

L’esigenza pratica di una definizione inequivoca delle fattispecie costitutive degli obblighi legali di compliance è chiaramente avvertita dal Final Report dell’Action 12 della BEPS che, appunto, si occupa della Mandatory Disclosure.

Nel punto 19 del Final Report si afferma, infatti, che «Mandatory disclosure rules should be drafted as clearly as possible to provide taxpayers with certainty about what is required by the regime» e si precisa opportunamente che la mancanza di chiarezza determina resistenze dei contribuenti e riduce l’utilità delle informazioni ricevute.

Al di là di questo profilo pragmatico e opportunistico, l’esigenza di chiarezza ha diretti riflessi giuridici.

Per citare il più importante e noto, è sufficiente rammentare che l’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente dispone che l’obiettiva incertezza sulla portata applicativa di una norma determina la disapplicazione delle sanzioni.

È chiaro che una cosa è l’esistenza di condizioni di obiettiva incertezza “marginali” – quelle, per intenderci, che corrispondono alle “zone grigie” proprie della delimitazione di qualsiasi fattispecie astratta – altra cosa è l’incertezza sistematica che si ha quando la norma è “strutturalmente” generica o vaga.

Mentre nel primo caso la disapplicazione opererà sporadicamente, cioè proprio nel caso in cui ci si venga a trovare in una zona grigia; nel secondo caso la disapplicazione diventa un carattere costante.

Il che significa che l’obbligo resta strutturalmente privo di sanzione con le inevitabili conseguenze.

3. Le cause della genericità della disciplina della DAC 6: A) cause generali

Il problema che si è segnalato risulta abbastanza evidente per la DAC 6 e ha almeno due cause.

La prima è, per così dire, generale e strutturale.

L’obbligo di informativa è funzionale a intercettare non già gli schemi elusivi già conosciuti, ma quelli che l’amministrazione fiscale non conosce ancora. Per essere più espliciti: l’oggetto della comunicazione non è l’applicazione in concreto (cioè rispetto a un determinato contribuente) di uno schema elusivo; l’informazione che si vuole ottenere (e che si obbliga a fornire) è relativi agli schemi in fase di ideazione, ancora non diffusi fra i contribuenti e, soprattutto, ancora non conosciuti (come schema astratto) dall’amministrazione.

E, se è assai arduo affermare che un determinato comportamento è elusivo quando lo si osserva nel suo concreto esplicarsi, è ovviamente ancora più arduo definirlo quando è del tutto ignoto.

Se le clausole generali antiabuso sono, per definizione, vaghe, altrettanto vaghe (anzi ancor di più) sono le norme che pretendono un’informativa preventiva sulle operazioni elusive.

A questo problema si tenta di porre rimedio, nei singoli Stati che hanno già sperimentato la disciplina di regimi di mandatory disclosure, mediante la previsione dei cc.dd. hallmarks i quali consistono nei lineamenti, nei tratti somatici essenziali dell’elusività.

Per esprimerci con una metafora, si potrebbe dire che non si chiede di segnalare il “Bello” (nozione sfuggente e soggettiva), ma ciò che presenta le caratteristiche essenziali della “bellezza” (p.es. l’altezza, il colore dei capelli ecc.) auspicando che tali elementi presentino maggiori caratteri di determinatezza.

La strada potrebbe essere quella corretta, ma, come avremo modo di ribadire, essa richiede un elevato grado di concettualizzazione. Ossia impone di guardare all’enorme casistica di ipotesi “elusive” per individuare alcuni elementi costanti e sufficientemente determinati che possano svolgere il citato ruolo “segnaletico”.

È, questa, un’impresa per nulla facile come insegna l’esperienza – in Italia abbastanza recente – relativa alla formulazione di una clausola generale antiabuso.

4. Le cause della genericità: B) cause particolari

Le difficoltà appena segnalate sono ulteriormente accentuate nel caso della DAC 6.

Le esperienze da cui si muove – e che sono alla base della Action 12 della BEPS – hanno carattere “nazionale”. E, per quanto l’elusione comunque sia, come si è detto, un fenomeno difficile da definire, esso si presenta relativamente più determinato in un contesto nazionale. E ciò per l’evidente motivo che l’elusione e/o l’abuso del diritto sono “strumentalizzazioni di norme” che, secondo la formula dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, vengono solo “formalmente” rispettate, ma “sostanzialmente” aggirate.

Tutto questo rende quindi imprescindibile il confronto con un sistema fiscale determinato, perché ciò che costituisce ossequio solo “formale” (ma non “sostanziale”) delle norme in un ordinamento potrebbe essere un illecito tout court in un altro e assolutamente conforme alla lettera e alla ratio del sistema in un altro ancora.

L’obiettivo della DAC 6 è, invece, quello di configurare un obbligo di informativa relativo alle pratiche elusive “internazionali”, il quale deve essere fondato, quindi, su una nozione di “elusione” quasi universale o, per meglio dire, deve fondarsi sulla individuazione di hallmarks che presentano il carattere dell’assolutezza nel senso letterale del termine. Ossia devono essere “sganciati” dal riferimento a uno specifico sistema normativo e avere riguardo a ciò che identifica o dovrebbe identificare quasi costantemente – o almeno con un elevato grado di probabilità – uno schema elusivo.

Ma questo non basta. Perché occorre non solo avere ben chiari in mente quali sono tali caratteri identificativi dell’elusione in sé, ma li si deve anche “tipizzare”.

La fattispecie – come nozione generale – è una “immagine del fatto” ossia, per l’appunto, una tipizzazione. Per esempio, si muove dall’analisi della realtà concreta e si riassumono tutte le infinite modalità in cui un essere umano può privare della vita un altro essere umano coniando il “tipo” dell’omicidio.

Portare a termine questa operazione di tipizzazione per l’elusione internazionale, sia pure limitata ai suoi segni distintivi essenziali, è operazione che richiede un grande lavoro di concettualizzazione, nel quale devono essere impiegate notevoli capacità di sintesi e di astrazione e che implica anche l’esigenza di elaborare di termini e concetti ancora non entrati nel lessico standardizzato della nostra materia.

E questo è tanto più vero, nella misura in cui, prima ancora che nei concetti astratti, anche nella realtà concreta l’elusione è un fenomeno molto più sfuggente di … un omicidio.

5. Il completamento della disciplina a livello interpretativo

Non c’è dubbio che lo sforzo in tal senso compiuto dagli estensori della DAC 6 è notevole e, soprattutto, non si può in alcun modo mettere in discussione l’assoluta importanza degli obiettivi che essa si propone.

Ma l’esperienza internazionale dimostra che, allo stato attuale dell’elaborazione concettuale e della conseguente “tipizzazione” degli elementi che determinano l’obbligo di segnalazione (sia pure limitandoci ai soli hallmarks), la norma primaria non è di per sé sufficiente al fine di un’applicazione connotata da un adeguato livello di certezza.

Nel Regno Unito – che è uno dei precursori di questo genere di disciplina – la Disclosure Tax Avoidance Schemes (DOTAS) comprende, oltre alla legislazione primaria, una cospicua legislazione secondaria e, infine, una Guidance di 187 pagine.

Se si tiene conto delle osservazioni che precedono, appare poco realistico immaginare che l’introduzione da parte dei singoli Stati membri della Direttiva DAC 6 e la sua concreta operatività possa prescindere da un complemento, a livello di normativa secondaria e di istruzioni, significativamente meno importante.

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