Guglielmo Fransoni

DIVIDENDI ESTERI, IRAP E IL DIFFICILE APPROCCIO DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE AL DIRITTO UNIONALE


Commento a CTP Roma, Sez. 12, sent. 16631/19 del 29 novembre 2019


1. Il problema dell’imponibilità dei dividendi ai fini i.r.a.p.

Com’è noto, la Direttiva del Consiglio UE n. 96/2011/UE (c.d. Direttiva “Madre-Figlia”), nel perseguire l’obiettivo di eliminare la doppia imposizione economica sui dividendi ha stabilito che tale finalità possa essere raggiunta esentando dalle imposte sui redditi dello Stato di residenza della società “madre” i dividendi distribuiti dalle società “figlie” (art. 4, par. 1, lett. a), della Direttiva).

In questo caso, ai sensi dell’art. 4, par. 3, della Direttiva, gli Stati membri possono, alternativamente:

  • o escludere la deducibilità dei costi relativi alla gestione delle partecipazioni (soluzione particolarmente complessa, perché richiederebbe una difficile cernita diretta a isolare, rispetto alla totalità dei costi, quelli riferiti alle partecipazioni da cui derivano dividendi esenti;
  • oppure forfetizzare la deduzione. Poiché tale forfetizzazione può avvenire consentendo la deduzione integrale dei costi, e applicando l’imposta a una percentuale dei dividendi, la Direttiva prescrive che, in questo caso, la percentuale imponibile non può essere superiore al 5% del relativo importo (art. 4, par. 3, della Direttiva).

Senza entrare in una più minuziosa analisi, è sufficiente, ai nostri fini, dire che la Corte di Giustizia UE, nell’interpretare la Direttiva ha in pratica stabilito, con le due sentenze 17 maggio 2017, AFEP, C-365/16 e 17 maggio 2017, X, C-68/15, che, nella seconda ipotesi prima indicata (quella della forfetizzazione della deduzione con imposizione di non oltre il 5% dell’ammontare dei dividendi), il diritto dell’Unione osta all’applicazione di qualsiasi ulteriore imposizione, sia pure diversamente denominata, a carico dei dividendi medesimi.

Per effetto di tali pronunce, gli intermediari finanziari che determinano la base imponibile i.r.a.p. ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 446 del 1997 hanno sollevato il non peregrino dubbio che sia in contrasto con il citato art. 4, par. 3, della Direttiva la previsione secondo cui i dividendi concorrono alla formazione della base imponibile di tale imposta nella misura del 50% dei dividendi.

Il dubbio di cui sopra ha indotto tali contribuenti a presentare istanze di rimborso all’Agenzia delle Entrate e, a seguito del diniego tacito o espresso opposto dall’Agenzia, a proporre il conseguente ricorso dinanzi alle Commissioni tributarie.

La sentenza in esame è una delle poche pronunciate fino ad oggi (tutte di segno negativo). Come tutte le altre, si caratterizza per l’evidente disordine nell’esposizione degli argomenti che, a sua volta, denota una notevole difficoltà di approccio dei giudici tributari al diritto dell’Unione Europea.

2. L’incongruenza della motivazione di rigetto del ricorso

Il disordine di cui si diceva è chiaramente evidenziato dalla pluralità di argomenti sui quali si fonda la sentenza e dalla impropria sequenza logica con i quali essi sono esposti.

Affermano, infatti, i giudici della Commissione tributaria provinciale di Roma che il contrasto della norma nazionale con la Direttiva non sussisterebbe e, quindi, il rimborso non sarebbe dovuto perché:

  • l’i.r.a.p. non è un’imposta sul reddito;
  • non è provata la doppia imposizione;
  • le sentenze della Corte di Giustizia citate non negano la compatibilità del «trattamento tributario italiano dei dividendi rispetto al diritto e ai principi comunitari espressi dalla Direttiva “madre-figlia”» e «hanno come ambito esclusivo le imposte sul reddito»;
  • la Direttiva non è di immediata applicazione.

In primo luogo, è facile rilevare che queste statuizioni sono esposte senza alcun ordine logico.

Invero, se fossero fondate le ultime affermazione, tutte le altre sarebbero praticamente del tutto superflue: se la direttiva non è di diretta applicazione e comunque il diritto interno non è in contrasto con la stessa, i contribuenti non avrebbero, per definizione, nulla di che lamentarsi.

La seconda affermazione, poi, è o irrilevante, o del tutto errata. Se, infatti, la disciplina interna fosse legittima, il tema dell’esistenza della doppia imposizione non avrebbe alcun rilievo. Se, viceversa, la disciplina interna fosse non conforme alla Direttiva, sarebbe errato interrogarsi, in punto di fatto, circa l’esistenza o meno di una doppia imposizione dei dividendi. Tale doppia imposizione dovrebbe dirsi, infatti, sussistente in re ipsa, per il solo fatto della difformità del metodo normativamente applicato per eliminarla rispetto a quello previsto dalla Direttiva.

La terza affermazione è, per un verso, ovvia, perché è di tutta evidenza che le sentenze della Corte di Giustizia del 17 maggio 2017 si occupavano della disciplina propria di altri Stati membri: l’aspetto rilevante di tali sentenze erano i principi in esse affermati, non quanto dalle stesse specificamente disposto rispetto ai casi decisi. Per altro verso, tale affermazione è errata, perché la Corte di Giustizia ha statuito espressamente che «Peraltro, si deve osservare, in tale contesto, che poco rileva che la misura fiscale nazionale sia o meno qualificata come imposta sulle società. A tale proposito, è sufficiente constatare che l’art. 4, par. 1, lett. a) della direttiva madri-figlie non limita la propria applicazione a una determinata imposta».

Proprio alla luce di quest’ultima affermazione, risulta di tutta evidenza, infine, la singolare superficialità della prima statuizione dei giudici di primo grado, quella, cioè, incentrata sulla diversità dell’i.r.a.p. rispetto all’i.re.s. Perché, a prescindere da talune altre considerazioni che svolgeremo tra breve, è evidente che la questione non riguardava l’identità in assoluto dell’i.re.s. e dell’i.r.a.p., ma l’effetto complessivo della compresenza delle due imposte nel sistema tributario italiano di imposizione dei dividendi nella specifica prospettiva della disciplina della Direttiva.

3. I principali rilievi critici

Le disordinate e incoerenti statuizioni dei giudici di primo grado si presterebbero a molteplici rilievi critici.

In questa sede, ci limitiamo a segnalare i due aspetti che ci sembrano maggiormente rilevanti.

In primo luogo, l’affermazione secondo la quale la Direttiva non sarebbe di diretta applicazione appare come il frutto di un radicale fraintendimento della disciplina unionale.

In realtà, il carattere della diretta applicabilità non riguarda le Direttive nel loro complesso, ma le singole disposizioni in esse contenute.

Ed è pacifico che sono tutte e sempre direttamente applicabili le disposizioni che dettano una disciplina incondizionata e precisa, una volta che sia scaduto il termine per la loro applicazione da parte dei legislatori nazionali.

L’affermazione dei giudici della Commissione romana (giustificata, peraltro, mediante il richiamo a una sentenza della Cassazione che si occupa solo di servitù prediali e non fa il benchè minimo cenno al diritto unionale) costituisce, quindi, una palese violazione del diritto unionale sia nella sua formulazione indiscriminata, sia se, implicitamente, i giudici di primo grado avessero voluto dire che la Direttiva “madre-figlia” non sarebbe di diretta applicazione perché l’articolo 4, par. 3, non sarebbe incondizionato perché consente un’opzione, ossia quella fra l’indeducibilità analitica di tutti i costi e l’indeducibiltà forfetizzata. Perché la questione non riguarda neppure il par. 3 nella sua interezza, ma quella parte che disciplina le conseguenze dell’opzione le quali sono certamente incondizionate e precise.

Infatti, il problema si pone perché lo Stato italiano ha chiaramente scelto per l’indeducibilità forfetaria e, là dove tale sia l’opzione del legislatore, diventa operante il divieto – certamente incondizionato e assolutamente chiaro e preciso – di non eccedere la misura del 5% dell’importo dei dividendi.

Premesso, quindi, che la disposizione contenuta nell’art. 4, par. 3 della Direttiva presenta tutte le caratteristiche per essere applicata direttamente e ricordata sia l’irrilevanza del tema della sussistenza in concreto della doppia imposizione, sia l’erroneità dell’assunto per il quale le sentenze della Corte di Giustizia (citate quasi en passant dai giudici romani) non sarebbero rilevanti nel caso di specie, l’unico tema che avrebbe avuto veramente senso approfondire era quello del rapporto fra i.re.s. e i.r.a.p.

A questo riguardo, si deve ammettere che la questione è certamente complessa – e non può essere affrontata in questa sede – ma si deve anche riconoscere che la sua soluzione è tutt’altro che scontata.

Al contrario, nonostante tale complessità e delicatezza, la Commissione Tributaria Provinciale ha risolto il tema in poche righe, senza prendere in alcuna considerazione i numerosi elementi che, fin dall’introduzione dell’i.r.a.p., legittimano l’affermazione secondo la quale non vi è una totale estraneità dell’i.r.a.p. rispetto all’i.re.s.: basta ricordare, al riguardo, la rilevanza dell’i.r.a.p. rispetto alle Convenzioni contro le doppie imposizione (che, pure, dovrebbero riguardare solo le imposte sui redditi) e il rapporto di “sostituzione” esistente fra i.r.a.p. e i.lo.r. (la quale era certamente un’imposta sul reddito).

A questi elementi “originari” di affinità fra i.r.a.p. e i.re.s. si sono aggiunti, poi, quelli conseguenti alle profonde modifiche della disciplina dell’imposta regionale che, secondo l’opinione pacifica, ne hanno totalmente modificato la fisionomia iniziale (rendendo del tutto obsoleto il riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale n. 156 del 2001).

Questi dati, se valutati alla luce dell’affermazione della Corte di Giustizia secondo la quale «poco rileva che la misura fiscale nazionale sia o meno qualificata come imposta sulle società» avrebbero dovuto far sorgere, quantomeno, più di dubbio circa la compatibilità con la Direttiva del regime i.r.a.p. dei dividendi percepiti dalle società che determinano la base imponibile ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 446 del 1997.

Dubbi che non tollerano di essere liquidati sbrigativamente e che, se non ci si vuole cimentare nella loro complessa soluzione, possono essere rimessi – molto più semplicemente e, verrebbe da dire, molto più responsabilmente e in modo più rispettoso per il diritto e le istituzioni unionali – al giudizio della Corte di Giustizia.

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