Guglielmo Fransoni

La Corte di giustizia UE ridimensiona il nuovo art. 70-quinquies, comma 3-bis, del d.p.r. 633 del 1972

Commento a Corte di Giustizia UE 18.11.2020, Kaplan, C-77/19                                                       


1. I molti profili di interesse della sentenza

La recente pronuncia della Corte di Giustizia offre agli studiosi e agli operatori del diritto tributario numerosi spunti di riflessione.

Il giudice remittente, infatti, aveva sottoposto diversi interrogativi al giudice comunitario ponendo in evidenza, in questo modo, vari aspetti della disciplina i.v.a. meritevoli di chiarimento e con significativi risvolti sistematici.

Una cospicua parte di questi interrogativi non è stata affrontata dalla Corte di Giustizia.

Correttamente, infatti, la Corte ha seguito il principio del “primato della questione più liquida” affrontando direttamente le questioni di più immediata soluzione. Il che è del tutto coerente con la funzione giurisdizionale la quale consiste nel risolvere il caso, non nell’esercizio di un’attività di consulenza. E se, per definire il giudizio, è sufficiente affrontare una sola delle più questioni controverse, è corretto soffermarsi solo su questa, con conseguente assorbimento di tutte le altre.

Nondimeno, poiché la riflessione teorica è alimentata dall’esperienza pratica, anche le questioni rimaste assorbite dovrebbero costituire occasione di riflessione per i cultori del diritto tributario.

Tuttavia, in questa sede, ci sembra opportuno limitare la nostra analisi solo a due profili della sentenza riguardanti espresse statuizioni della Corte di Giustizia.

2. I limiti di applicazione dell’art. 132, par. 1, lett. f) della direttiva 112/2006/CE in rapporto all’art. 70-quinquies, comma 3-bis, del d.P.R. n. 633 del 1972

L’art. 132, par. 1, lett. f) della direttiva 112/2006/CE consente agli Stati membri di esentare le prestazioni di servizi rese ai propri membri dalle «associazioni autonome di persone» a condizione che (i) i membri dell’associazione esercitino un’attività esente e (ii) tali associazioni si limitino a richiedere «l’esatto rimborso della spese comuni loro spettante».

La Corte era chiamata a decidere se e a quali condizioni tale disposizione potesse applicarsi anche alle prestazioni rese da un’associazione di persone a un “membro” che partecipi a un gruppo i.v.a. e la questione è stata risolta affermando che:

  • una volta costituito il Gruppo IVA, la prestazione deve intendersi resa non al singolo membro, ma al gruppo nella sua interezza;
  • pertanto, l’esenzione è applicabile solo se e nei limiti in cui tutti i membri del gruppo i.v.a. siano anche membri dell’associazione di persone.

L’interpretazione che la Corte di Giustizia fornisce dall’art. 132, par. 1, lett. f) della direttiva 112/2006/CE interferisce, così, con la disposizione contenuta nell’art. 72-bis del d.l. 104 del 2020 che ha novellato l’art. 70-quinqies del d.P.R. n. 633 del 1972 inserendovi i commi 3-bis e 3-ter proprio al fine di regolare i rapporti fra la disciplina del Gruppo IVA e quella dell’esenzione prevista dall’art. 10, comma 2 del d.P.R. n. 633 del 1972 relativamente alle prestazioni rese dai consorzi ai propri consorziati.

Tale interferenza si realizza in due forme diverse.

Da un lato, l’intervento della Corte di Giustizia rende in larga misura superato il comma 3-bis dell’art. 70-quinquies del d.P.R. n. 633 del 1972.

Invero, questa disposizione afferma che le prestazioni di servizi rese da un consorzio a un consorziato che sia membro di un Gruppo IVA, possono godere dell’esenzione prevista dall’art. 10, comma 2, cit. Essa, tuttavia, appare oggi relativamente inutile considerato che l’esenzione di cui all’art. 10, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 costituisce la trasposizione nell’ordinamento nazionale della regola contenuta nell’art. 132, par. 1, lett. f) della direttiva 112/2006/CE e posto che, in base alla sentenza della Corte di Giustizia in commento, l’esenzione delle prestazioni di servizi delle «associazioni autonome» (che sono appunto rappresentate, nel nostro ordinamento, dai consorzi) si applica certamente anche nei rapporti fra tali associazioni e i Gruppi IVA.

Il secondo piano di interferenza è che la sentenza in esame obbliga a dare un’interpretazione restrittiva della disposizione recata dall’art. 70-quinquies, comma 3-bis, cit.

Come abbiamo visto, la Corte ha statuito che l’applicazione dell’esenzione è condizionata al fatto che tutti i soggetti partecipanti al Gruppo IVA siano anche membri dell’associazione di persone che rende la prestazione di servizi. Ciò, trasposto nel nostro ordinamento, significa che tutti i partecipanti al Gruppo IVA devono anche essere consorziati del consorzio cui si applica l’art. 10, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972.

Si tratta di una condizione non contenuta nell’art. 70-quinquies, comma 3-bis, del medesimo decreto. Anzi, letteralmente, il testo normativo, nel richiedere che «il committente delle prestazioni sia un consorziato che partecipa al gruppo IVA», avrebbe probabilmente legittimato la soluzione opposta (ossia quella di richiedere che solo il committente, sotto il profilo civilistico, fosse anche un “consorziato”).

Tuttavia, l’ulteriore requisito reso necessario dalla sentenza in commento non è incompatibile con la formula normativa. Pertanto, il novellato art. 70-quinquies del d.P.R. n. 633 del 1972 può essere senz’altro letto (e, alla luce della sentenza in esame, deve essere letto) nel senso che non solo il committente deve essere un consorziato del Gruppo IVA, ma, altresì, la qualifica di consorziato deve essere riferita anche a tutti gli altri membri del Gruppo IVA medesimo.

Va da sé, che questa limitazione si aggiunge a quella – anch’essa non esplicitata dalla novella dell’art. 70-quinquies cit., ma da ritenersi, a nostro avviso, comunque in essa implicita – consistente nell’esclusione dall’ambito soggettivo di applicazione della norma dei consorzi costituiti da intermediari finanziari e assicurativi.

È noto, infatti, che la Corte di Giustizia UE con le sentenze gemelle del 21 settembre 2017, C-326/15 (DNB Bank) e C-616/15 (Aviva), ha affermato che il regime di cui all’art. 132, par. 1, lett. f) non si applica ai soggetti che svolgono attività bancaria o assicurativa.

Per tale motivo, l’art. 10, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 deve ritenersi incompatibile con la direttiva 112/2006/CE nella parte in cui non limita l’applicazione dell’esenzione ai soli consorzi operanti in settori relativi alle attività di interesse pubblico esenti, fra le quali non sono comprese quella bancaria e assicurativa.

Vero è che, secondo la prassi che si è affermata (tacitamente), il regime di esenzione per i consorzi bancari e assicurativi si continua ad applicare fino alla modifica dell’art. 10, comma 2, cit. E ciò sulla base dell’assunto che le sentenze interpretative della Corte di Giustizia, ove riguardino una direttiva, hanno, al pari delle norme della direttiva oggetto di interpretazione, efficacia diretta in senso meramente verticale, ossia possono essere fatte valere solo di privati nei confronti dello Stato e non viceversa. Cosicché, la disapplicazione dell’art. 10, comma 2, cit. non potrebbe essere invocata, sulla scorta delle sentenze citate, dall’amministrazione finanziaria.

Tuttavia, a nostro avviso, occorre estrema cautela per ritenere che l’argomento appena citato possa legittimare l’applicazione ai consorzi bancari e assicurativi anche della disciplina di cui all’art. 70-quinquies, comma 3-bis, cit.

In primo luogo, non si deve dimenticare che potrebbe risultare insufficiente assumere solo la disciplina degli “effetti diretti” come prospettiva di analisi al fine di affrontare la questione degli effetti delle sentenze del 21 settembre 2017, C-326/15 (DNB Bank) e C-616/15 (Aviva).

Invero, è bene aver presente che l’art. 10, comma 2, cit. disciplina un regime di favore e che tale regime non pone problemi di compatibilità con il divieto di aiuti di stato solo se e nei limiti in cui sia conforme ai limiti propri della direttiva 112/2006/CE. Con la conseguenza che un regime di esenzione che ecceda quei limiti presenta il rischio di essere in contrasto non solo e non tanto con la direttiva, ma anche con la disciplina comunitaria della concorrenza [la quale, non casualmente, è evocata dallo stesso art. 132, par. 1, lett. f) che limita la applicazione del regime ivi previsto ai soli casi in cui che la «esenzione non possa provocare distorsioni della concorrenza»].

In secondo luogo, si dovrebbe riflettere se nel rapporto fra norme unionali e norme interne con le prime incompatibili sia davvero sufficiente limitarsi alla considerazione della teoria degli “effetti diretti”, la quale è declinata avendo riguardo solo ai riflessi processuali di tale rapporto.

Ci si può cioè interrogare – ma si tratta di tema al quale può solo farsi un accenno e rispetto al quale non vi è, probabilmente, alcuna risposta sicura – se l’affermazione da parte della Corte di Giustizia dell’incompatibilità con una direttiva unionale di una norma interna determini effetti ulteriori rispetto alla “disapplicabilità” di quest’ultima (che è una vicenda essenzialmente processuale).

A questo riguardo, posto che l’art. 72-bis del d.l. 104 del 2020 – che ha introdotto i commi 3-bis e 3-ter nell’art. 70-quinquies del d.P.R. n. 633 del 1972 – si qualifica come “disposizione di interpretazione autentica”, ci si può chiedere, ad esempio, quale sia il rapporto fra l’interpretazione autentica e l’interpretazione operata dalla Corte di Giustizia.

Per rendersi conto dell’esistenza di questo problema sembra sufficiente porre mente al fatto che, secondo una cospicua parte della dottrina, (a) le disposizioni di interpretazione autentica e le sentenze interpretative della Corte di Giustizia presentano profili effettuali omologhi consistenti (b) nella realizzazione di una “saldatura” fra norma interpretata e norma interpretante che restringe i significati della prima.

Cosicchè, in questa prospettiva, non è del tutto fuori luogo chiedersi (senza ipotizzare le eventuali soluzioni) se l’effetto di “saldatura” della disposizione di interpretazione autentica (nel nostro caso l’art. 70-quinquies, comma 3-bis, cit.) rispetto alla norma interpretata (l’art. 10, comma 2) possa realizzarsi anche per quella parte del significato di quest’ultima che sarebbe da considerarsi “espunto” dalle potenzialità lessicali del testo in virtù della previa “saldatura” con il medesimo testo dell’interpretazione della Corte di Giustizia.

3. Uno spunto sistematico

Vi è, poi, un riflesso certamente di maggiore rilievo sul quale richiamare l’attenzione.

Sotto ogni profilo (sostanziale, civilistico, contabile, dell’imposizione diretta ecc.) non c’è dubbio che, nel caso esaminato dalla Corte di Giustizia, il rapporto di prestazioni di servizi intercorresse fra la “associazione di persone” e il singolo “committente” (come dice oggi l’art. 70-quinquies, cit.).

È solo nella prospettiva della determinazione dell’i.v.a. che assume rilievo il Gruppo IVA.

Come abbiamo visto, però, la Corte attribuisce a questa circostanza un valore decisivo.

Il che significa che la “soggettività” del Gruppo IVA assume, almeno nel sistema dell’imposta, un “valore forte”.

Del quale, quindi, si dovrà tenere conto nell’affrontare i futuri problemi interpretativi che l’esperienza non mancherà di presentarci.

4. L’interpretazione delle esenzioni

Per pervenire alle conclusioni prima indicate, la Corte di Giustizia svolge alcune considerazioni preliminari nelle quali sono, è ben vero, ribaditi principi già noti e che, tuttavia, sono esposti in una successione così rapida da non poter non indurre a una riflessione.

Nella sentenza, al punto 38, la Corte ripete il principio costantemente sottolineato secondo cui le disposizioni nelle quali «sono state designate le esenzioni IVA di cui all’articolo 132 della direttiva 2006/112 devono essere interpretate restrittivamente, dato che tali esenzioni costituiscono deroghe al principio generale secondo cui ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo è assoggettata a detta imposta».

Questa affermazione è, tuttavia, immediatamente temperata da due precisazioni.

La prima è contenuta al medesimo punto 38 ed è nel senso che «Tuttavia, l’interpretazione di tali termini dev’essere conforme agli obiettivi perseguiti dalle dette esenzioni e rispettare i requisiti del principio di neutralità fiscale relativo al sistema comune dell’IVA. Pertanto, questa regola d’interpretazione restrittiva non significa che i termini utilizzati per specificare le esenzioni di cui al suddetto articolo 132 debbano essere interpretati in un modo che priverebbe tali esenzioni dei loro effetti».

La seconda è indicata nel successivo punto 39 e consiste nel rilievo che «Secondo costante giurisprudenza, ai fini dell’interpretazione di una disposizione di diritto dell’Unione, si deve tener conto non soltanto della lettera della stessa, ma anche del suo contesto e degli scopi perseguiti dalla normativa».

È evidente che il quadro complessivo delinea un canone ermeneutico sufficientemente distante dalla regola dell’interpretazione ristretta.

Perché, se il tenore testuale di una disposizione deve essere letto in funzione della valorizzazione delle sue finalità (o, se vogliamo, della sua ratio) e secondo il contesto e gli scopi perseguiti, sembra evidente che non si sta più propugnando un’interpretazione “letterale”, ma un’interpretazione sistematica e secundum rationem.

È, questa, una conclusione assolutamente condivisibile e perfettamente razionale che dovrebbe essere tenuta sempre presente nei discorsi sull’interpretazione delle norme interne o unionali là dove, al contrario, molto spesso ci si ferma solo alla prima affermazione senza considerare le altre due che la completano e ne rendono molto diverso il senso.

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