Commento a Risp. nn. 360, 361, 363 e 363 del 2022
1. Una retromarcia
La sensazione generale che il lettore ricava dalla lettura delle recenti risposte a interpello qui commentate è che l’Agenzia delle Entrate abbia inteso operare un’inversione di rotta rispetto all’orientamento precedentemente espresso nella Risp. n. 852 del 22 dicembre 2021.
Tale sensazione è giustificata certamente dal tenore di ciascuna singola risposta a interpello. Ma essa (sensazione) è ulteriormente rafforzata dalla scelta – verosimilmente non casuale – di pubblicare le predette risposte “in serie”. Si ha quasi l’impressione, per utilizzare una metafora, di un “fuoco di sbarramento”.
Questa retromarcia si presta ad essere valutata sotto tre profili: quello dell’opportunità, quello della fondatezza delle singole soluzioni e quello della linearità del ragionamento.
La valutazione relativa ai primi due profili può essere effettuata in poche parole.
Quanto all’opportunità, non si può dubitare che sia certamente sussistente l’esigenza di avvertire gli interpreti e gli operatori del fatto che la consulenza e l’assistenza svolta in relazione a operazioni di M&A non si risolvono automaticamente e costantemente in un’attività d’intermediazione. Detto in altri termini, è corretta, a nostro avviso, la scelta di compiere un’attività di ristabilimento dei confini fra consulenza e intermediazione.
Quanto alla fondatezza delle singole soluzioni, è molto difficile esprimere un giudizio. L’Agenzia ha avuto a disposizione molti più elementi di conoscenza per esprimere la propria opinione ed è ben possibile che essa sia del tutto fondata. Il punto è che – in un interpello come in una sentenza – il lettore può formarsi un’opinione solo sulla base del ragionamento sviluppato nella motivazione. Ed è possibile, quindi, che la decisione corretta sia fondata su una motivazione inappagante e viceversa. Per il destinatario – della risposta a interpello o della sentenza – resta la decisione che questi valuterà sulla base della sua conoscenza dei fatti. Per la ben più vasta cerchia del pubblico fra cui trovano diffusione le risposte ad interpello o le sentenze, ciò che conta è la motivazione e il suo grado di persuasività.
2. Le criticità della motivazione
Arriviamo, così, al terzo profilo di analisi delle risposte a interpello in esame. Dobbiamo cioè valutare se la motivazione che le sorregge è adeguata a giustificare la soluzione.
A questo riguardo, in base a una lettura che, certamente, è “a caldo”, ci sembra necessario evidenziare tre principali criticità.
La prima criticità – che è anche quella di maggior peso e che giustifica il titolo di questo commento – attiene al tentativo, a nostro avviso non perfettamente riuscito, di contrappore la consulenza alla intermediazione.
La seconda criticità riguarda il rilievo dato in almeno due risposte a interpello all’oggetto sociale del soggetto che affermava di svolgere attività di intermediazione.
La terza criticità è determinata dall’accento posto dall’Agenzia delle Entrate sulla “indipendenza” dell’intermediario.
I tre aspetti meritano di essere affrontanti separatamente. Anche se, proprio perché questo è un commento “a caldo”, ci limiteremo a considerazioni molto sintetiche.
3. Il rapporto fra consulenza e intermediazione
Come abbiamo anticipato, ciò che meno persuade nelle risposte in esame, è che l’Agenzia delle Entrate sembra postulare una radicale estraneità dell’attività di consulenza rispetto a quella di intermediazione.
Questa affermazione contrasta con la realtà. Oseremmo dire che essa confligge con un dato sociologico.
Da che mondo è mondo, il sensale – quello maggiormente ricercato dai clienti e che fornisce maggiori garanzie circa il buon esito dell’affare – è un esperto della qualità dei beni intermediati.
Se ne può dare un riscontro sul piano etimologico.
Il termine “cozzone” (ormai desueto) indica il mediatore di equini e da esso deriva il termine “scozzonare” che indica l’attività di addestramento dei cavalli. Vale a dire che il mediatore ha anche le competenze dell’addestratore.
D’altronde, chi ricorda le fiere agricole, ricorda anche che i mediatori erano in grado di valutare la qualità del prodotto. I famosi sensali di bovini – mestiere che si tramandava di padre in figlio – si contraddistinguevano per una bacchetta con la quale saggiavano i riflessi degli animali.
In altri termini, il mediatore, per fare il proprio mestiere al meglio, deve essere in grado di valutare la merce. L’assistenza alla negoziazione non può essere resa solo “filtrando” le indicazioni delle parti, ma consiste, innanzi tutto, nella individuazione dei punti di forza e dei punti di debolezza delle contrapposte posizioni negoziali circa i pregi e i difetti della mercanzia.
Tutto questo si risolve, in poche parole, in un’attività di consulenza che è “intrinseca” alla prestazione di intermediazione. Ovvero, per usare, il lessico proprio dell’imposta sul valore aggiunto, la consulenza è una prestazione inscindibile dall’intermediazione che viene resa non come “un fine in sé”, ma quale elemento che consente di fruire al meglio della prestazione principale. Detto in altri termini, la consulenza è una prestazione necessariamente accessoria.
Ed è chiaro che – se si passa dalla compravendita di equini alle operazioni di M&A e dai cozzoni agli advisor – le caratteristiche e l’impegno consulenziale richiesti all’intermediario assumono caratteristiche, specializzazioni, complessità molto diverse.
Val quanto dire che l’attività di intermediazione non è in alcun modo snaturata dalla presenza di un’attività consulenziale anche molto intensa nella fase di ricerca del potenziale acquirente e nella gestione delle negoziazioni.
Questo, ovviamente, non significa che ogni consulenza sia anche attività di intermediazione.
Si vuole solo dire che ciò che deve essere indagato non è l’esistenza in sé dell’attività consulenziale, bensì il suo rapporto, se c’è, con l’attività di intermediazione.
È vero che, posta la questione in siffatti termini, il problema diventa una mera quaestio facti. Ossia presuppone un’indagine che, forse, non si presta ad essere affrontata e risolta in sede di interpello.
Il che, tuttavia, avrebbe obbligato l’Agenzia delle Entrate ad enunciare proprio questo principio: la consulenza è perfettamente compatibile con l’attività d’intermediazione, purchè rimanga nei limiti, da accertarsi in punto di fatto, dell’accessorietà. Limiti, beninteso, qualitativi e non quantitativi.
4. L’irrilevanza dell’oggetto sociale
Discorso molto più breve può essere fatto per le altre due criticità.
Quanto al rilievo che l’Agenzia delle Entrate sembra attribuire all’oggetto sociale dell’asserito intermediario, ci sembra che si tratti palesemente di un fuor d’opera.
Il giudizio sulla natura della prestazione prescinde dall’oggetto sociale di chi la rende.
Il fatto che l’oggetto sociale di una società di advisorship sia prevalentemente o esclusivamente incentrato sulla consulenza nulla dice circa l’attività in concreto svolta.
Proprio la circostanza già segnalata per cui il migliore intermediario è colui che ha una specifica e spiccata competenza nel settore di cui si occupa, rende perfettamente possibile che un soggetto che sia un rinomato consulente aziendale svolga attività di intermediazione nel proprio settore.
Si tratta, in altri termini, di un elemento irrilevante ai fini della qualificazione dell’attività. E la sua sottolineatura da parte dell’Agenzia delle Entrate si può rivelare molto fuorviante.
5. L’irrilevanza dell’indipendenza
Convince assai poco, infine, l’accento che l’Agenzia delle Entrate pone sul requisito dell’indipendenza.
L’errore, a nostro avviso, consiste nell’aver fatto assurgere una qualità che, tutt’al più, è propria del mediatore a elemento integrativo della fattispecie d’esenzione di cui all’art. 10, comma 1, n. 9, del d.P.R. n. 633 del 1972.
Anche per quanto attiene al mediatore, peraltro, si deve ricordare che la dottrina ammette la possibilità del mediatore unilaterale o fiduciario.
Ma, al di là di questa considerazione, il dato rilevante è che l’art. 10, comma 1, n. 9, del d.P.R. n. 633 del 1972 qualifica come prestazioni di intermediazione esenti anche quelle rese da soggetti che non hanno per definizione alcun carattere di indipendenza. Non fosse altro perché intervengono su incarico di una sola delle parti (come i mandatari, gli agenti ecc.).
La posizione di indipendenza e imparzialità non sono, quindi, elementi costitutivi della prestazione esente disciplinata dalla norma citata.
Detto in altri termini, dalla assenza di indipendenza e imparzialità si può far discendere, al massimo, la conseguenza che l’intermediario non è un mediatore. Ma ciò non esclude affatto che la prestazione che questi rende non sia comunque qualificabile come “intermediazione” nel senso richiesto dall’art. 10, comma 1, n. 9, del d.P.R. n. 633 del 1972.