Osservazioni su Risp. n. 457/E dell’8 ottobre 2020
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1. La questione
La questione che mi propongo di esaminare riguarda un tema decisamente di “nicchia”. Tuttavia, essa costituisce un’utile occasione per un duplice ordine di motivi. Per ragionare di un’imposta trascurata, ma non irrilevante. E anche per condurre qualche verifica sulla bontà del metodo impiegato per risolvere i problemi interpretativi.
La questione qui rilevante riguarda l’applicazione dell’art. 13, comma 2, della Tariffa allegata al d.P.R. n. 642 del 1972. Esso stabilisce l’applicabilità dell’imposta di bollo fin dall’origine a «Estratti di conti, nonché lettere ed altri documenti di addebitamento o di accreditamento di somme, portanti o meno la causale dell’accreditamento o dell’addebitamento e relativi benestari». Ma questa applicazione non è generalizza. La norma citata fissa, infatti, una soglia di rilevanza.
Più specificamente, la misura dell’imposta è determinata in modo c.d. “graduale”. Sono previsti due scaglioni. Il primo è esente da imposta. Agli atti del secondo scaglione si applica il bollo in misura pari a Euro 2,00. I due scaglioni sono separati da una soglia che viene in rilievo «quando la somma supera L. 150.000 (n.d.r. Euro 77,40) per ogni esemplare».
Poiché gli estratti conto possono contenere sia accreditamenti che addebitamenti, l’Agenzia è stata interpellata per conoscere cosa si dovesse intendere, in questi casi, per “somma”. E la soluzione è stata nel senso che la soglia sarebbe individuata dal: «saldo contabile, generato dalla somma algebrica di addebitamenti e accreditamenti».
I dubbi circa la validità di questa soluzione sono numerosi.
Per darne conto, occorre percorrere tre strade convergenti.
Innanzi tutto, è necessario un ritorno al passato e, in specie, alla disciplina dell’imposta di bollo di cui al r.d. 30 dicembre 1923, n. 3268 (T.U. del 1923).
In secondo luogo, occorre una breve incursione nel territorio del diritto civile.
Infine, è opportuno leggere la disposizione sistematicamente.
2. Ritorno al passato
Il T.U. del 1923 – rimasto in vigore fino al 1972 – conteneva una preziosa indicazione rispetto al tema qui affrontato.
La misura dell’imposta di bollo dovuta per gli estratti conto era contenuta nell’art. 27 della Tariffa. Esso prevedeva che agli estratti conto l’imposta fosse dovuta in misura fissa. La fissità non era però assoluta, bensì condizionata all’osservanza di talune regole (apparentemente) formali.
La nota all’art. 27 stabiliva che la mancata osservanza di tali condizioni avrebbe comportato l’applicazione dell’art. 19. Conseguentemente, l’estratto conto sarebbe stato sottoposto al bollo alla stregua delle “ricevute ordinarie”. In questo caso, l’imposta sarebbe stata applicata in misura proporzionale (e non fissa).
Le condizioni cui era subordinata l’applicazione dell’imposta in misura fissa erano tre. In primo luogo, si richiedeva che il contratto alla base del rapporto di conto corrente di corrispondenza risultasse per atto scritto. In secondo luogo, occorreva che ciascuno dei correntisti tenesse un apposito registro. Infine, era necessario che sugli atti di accreditamento in conto corrente fosse richiamata la pagina del registro in cui era registrata l’operazione.
È chiaro, quindi, che, in quel sistema, estratti conto e ricevute ordinarie (o quietanze) erano documenti sostanzialmente assimilati. Il differente regime (imposta fissa e non proporzionale) aveva carattere agevolativo. Si tratta di uno dei tanti regimi speciali riservanti ai rapporti commerciali. E le condizioni previste dalla nota marginale all’art. 27 avevano funzione chiaramente antielusiva. Esse (condizioni) stabilivano, cioè, il livello di certezza minimo (circa l’esistenza di un rapporto di conto corrente di corrispondenza) per applicare l’agevolazione agli estratti.
Posto, dunque, che estratti conto e ricevute (o quietanze) erano sostanzialmente assimilati, occorre chiedersi le ragioni di tale equiparazione.
In mancanza di una definizione di estratto conto, bisogna partire dalla nozione di “ricevuta ordinaria”.
Quest’ultima era rinvenibile contenuta nell’art. 7 del T.U. del 1923. Secondo tale diposizione costituiva “ricevuta ordinaria” «ogni dichiarazione o riconoscimento dato per pagamenti fatti a qualsiasi titolo in denaro».
La caratteristica della ricevuta ordinaria – e quindi dell’estratto conto, in virtù della citata equiparazione – consisteva nell’essere “dichiarazione o riconoscimento di pagamenti”.
Questa indicazione rileva, ai nostri fini, per due motivi.
La prima ragione di interesse è data da una riflessione circa la base imponibile dell’imposta proporzionale. Posto che il mancato rispetto delle condizioni indicate determinava l’applicazione delle regole di cui all’art. 19, occorre chiedersi come si calcolava la relativa base imponibile.
Il problema è risolto dalle note marginali a quest’ultima disposizione. Esse prevedevano che «le ricevute ordinarie rilasciate fra le stesse parti … possono essere scritte su di un unico foglio di carta bollata purché questo sia di valore non inferiore al cumulo delle imposte dovute» per ciascuna di esse.
Pertanto, le “dichiarazioni e i riconoscimenti di pagamento” fra le stesse parti si cumulavano. E questo anche ove esse fossero di “segno” opposto. Ossia anche se ciascuna parte dichiarava un pagamento o riconosceva un debito rispetto all’altra. Certamente, non si sommavano algebricamente.
3. Il dato civilistico
L’equiparazione fra ricevute ordinarie e estratti conto operata dalle disposizioni citate presenta un secondo motivo d’interesse.
Il dato fiscale, infatti, appare coerente con quello civilistico.
In questo contesto, l’estratto conto documenta i rapporti fra le parti di un conto corrente di corrispondenza (artt. 1823 ss. c.c.). Il quale, è superfluo ribadirlo, al di là dell’assonanza del nome, non è in alcun modo omogeneo al conto corrente bancario.
Fra le disposizioni relative al conto corrente di corrispondenza, solo l’art. 1832 c.c. menziona – anzi, presuppone – l’estratto conto.
In proposito, la dottrina è univoca nel desumere da questa disposizione che l’estratto conto contiene l’indicazione delle “rimesse” reciproche. E altrettanto univocamente attribuisce natura “confessoria” a tale indicazione.
Questa natura attiene certamente ai fatti sfavorevoli a colui che predispone il conto (ossia alle rimesse ricevute). Rispetto ad essi l’estratto conto ha il contenuto di un “riconoscimento di debito” (art. 1988 c.c.).
Ma analoghe considerazioni valgono anche per le rimesse effettuate. In questo caso abbiamo una “dichiarazione di pagamento”. E anch’essa assume valore ricognitivo in assenza di contestazione (art. 1988 c.c.) da parte di colui che riceve l’estratto.
Ne risulta confermata, allora, l’omogeneità fra le “ricevute ordinarie” (come definite dall’art. 7 del T.U. del 1923) e gli estratti conto.
Ciò almeno per quanto riguarda i contenuti effettuali. Resta, invece, una differenza “soggettiva” fra i due documenti. Perché gli estratti conto si inseriscono, di norma, in rapporti fra “commercianti”. E questo, come ho già detto, giustifica le condizioni cui era subordinata l’applicazione dell’imposta in misura fissa. La data certa, le registrazioni, ecc., sono, infatti, gli elementi che consento di valorizzare il citato profilo distintivo di matrice “soggettiva”.
La ricostruzione civilistica consente anche di formulare un primo motivo di dissenso rispetto alle argomentazioni dell’Agenzia nella risposta in esame. L’affermazione con la quale l’Agenzia giustifica la soluzione adottata appare non perfettamente centrata. Secondo la Ris. 457/E del 2020, il riferimento alla somma algebrica fra addebitamenti e accreditamenti sarebbe conseguenziale alla natura degli estratti conto. Ciò in quanto, gli estratti conto devono «intendersi quali strumenti volti ad accertare il saldo disponibile, ad una precisa data, per le operazioni di pagamento».
L’affermazione è largamente imprecisa.
Le caratteristiche menzionate non sono proprie dell’estratto conto previsto dal contratto di conto corrente, ma di quello contemplato dalla disciplina del conto corrente bancario.
Solo quest’ultimo è uno strumento diretto «ad accertare il saldo disponibile, ad una precisa data, per le operazioni di pagamento». Non così l’estratto conto di cui all’art. 1832 c.c. che è quello di cui si occupa l’art. 13 cit.
Tale documento è finalizzato alla riconciliazione delle rimesse reciproche fra i correntisti. Conseguentemente, anche il saldo del conto corrente di corrispondenza ha un significato diverso che si comprende solo muovendo dall’effetto tipico del contratto disciplinato dall’art. 1823 c.c..
Secondo l’opinione consolidata, con il contratto di conto corrente di corrispondenza le parti rendono temporaneamente inesigibili i crediti annotati nel conto. Cosicché, il saldo rilevato a ciascuna chiusura non indica alcuna “disponibilità per operazioni di pagamento”. Al contrario, tale saldo individua solo la parte dei crediti derivanti dalle reciproche rimesse per la quale cessa il regime di inesigibilità.
Cessazione, peraltro, temporanea. Se, infatti, se il saldo è portato a nuovo, si ricostituisce il regime anteriore (di inesigibilità). Dispone, infatti, l’art. 1823, comma 2, c.c. che il “saldo si considera prima rimessa di un nuovo conto”.
4. Le altre disposizioni in tema di accreditamenti e addebitamenti.
La conclusione cui perviene la risposta a interpello in commento è fondata, poi, su un’ulteriore considerazione. L’Agenzia, infatti, muove dalla premessa che l’art. 13 della vigente Tariffa menziona gli altri documenti di addebitamento o di accreditamento di somme. La conseguenza sarebbe che tale menzione lascerebbe «intendere che assumono rilevanza, ai fini della norma in esame, sia gli addebitamenti che gli accreditamenti».
La considerazione è senz’altro esatta, ma da essa vengono tratte implicazioni diametralmente opposte a quelle logicamente conseguenziali. È vero, infatti, che la parte della disposizione citata dall’Agenzia indica che assumono rilevanza «sia gli addebitamenti che gli accreditamenti». Ma è altresì vero che essi risultano rilevare in quanto isolatamente considerati. Ed è allora logico inferire che essi, ove globalmente presenti in un estratto conto, rilevino cumulativamente, proprio come prescriveva la nota marginale all’art. 19 del TU del 1923.
Detto altrimenti, se un documento di addebitamento isolatamente considerato viene assoggettato a imposta perché supera la soglia prevista e se lo stesso avviene per un documento di accreditamento isolatamente considerato, allora non vi è ragione per escludere che rilevino cumulativamente gli addebitamenti e gli accreditamenti contenuti nel medesimo documento e per valori, ciascuno, superiore alla soglia.
5. Conclusioni
Le precedenti considerazioni depongono nel senso che la risposta a interpello in commento è l’evidente frutto di un riflesso incondizionato.
L’esperienza tributaria comune e prevalente è quella dei tributi la cui base imponibile è tendenzialmente computata “al netto”. In questo contesto, non è semplice rendersi conto che alcune imposte si sottraggono completamente a tale logica.
È per questo che, come dicevo, si lascia apprezzare, in simili contesti, un approccio ermeneutico, per così dire, olistico. Un’interpretazione che tenga conto di un complesso di elementi. E che, quindi, comprenda l’evoluzione normativa, le regole civilistiche, i caratteri specifici dell’imposta. Un’interpretazione, in una parola, sistematica.
Peraltro, procedere in questo modo consente anche di evitare altre incongruenze interpretative.
Per restare alla disciplina che ho qui esaminato, si pensi al tema del saldo del conto corrente portato a nuovo.
Come tale esso emerge in un primo estratto conto e, poi, nell’estratto conto successivo.
Se si ragiona seguendo una logica che potremmo definire “reddituale”, l’indicazione del saldo nel nuovo estratto conto non dovrebbe rilevare ai fini del raggiungimento della soglia. Istintivamente, si è indotti a pensare che, se così non fosse, si avrebbe un “doppio di imposta”.
Ma l’errore consiste, per l’appunto, nell’adottare una logica “reddituale” per un tributo eminentemente cartolare.
L’art. 1823, comma 2, c.c. stabilisce, infatti, che il saldo del conto, se non è pagato, costituisce la “prima rimessa” di un nuovo conto. Quindi esso è, a tutti gli effetti, un nuovo accreditamento o addebitamento.
L’estratto conto non è paragonabile a una frazione di un conto complessivo sulla falsariga dei periodi d’imposta. Al contrario, ciascun estratto conto rileva autonomamente. Il contenuto di ogni estratto conto, per ciò che è fiscalmente rilevante, deve essere preso isolatamente in considerazione.
Né si può considerare accettabile una soluzione solo perché essa è favorevole ai contribuenti (com’è per quella di cui alla Ris. 457/E del 2020).
In realtà, ogni soluzione non condivisibile (per quanto possa apparire in sé tollerabile), crea, a ben vedere, una smagliatura nel sistema. E ogni smagliatura, nel medio temine, produce conseguenze pregiudizievoli per tutti.