Guglielmo Fransoni

L’imposta sui servizi digitali e il “potere di controllo sui dati” come indice di capacita’ contributiva

Appunti per una ricostruzione sistematica dell’i.s.d. alla luce della bozza di provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate emanato per l’applicazione della disciplina di cui all’art. 1, commi 35-50, della l. 30 dicembre 2018, n. 145.


1. Considerazioni introduttive a una proposta di interpretazione dell’imposta sui servizi digitali

L’imposta sui servizi digitali – contraddistinta anche dall’acronimo i.s.d. – è stata dapprima introdotta dall’art. 1, commi 35-50, della l. n. 145 del 2018. Com’è noto, tale disciplina non è mai entrata in vigore a seguito della mancata approvazione del decreto attuativo.

Conseguentemente, dal 1° gennaio 2020 è vigente una nuova imposta che, pur avendo la medesima denominazione ed essendo disciplinata dallo stesso art. 1, commi 35-50, della l. n. 145 del 2018, ha un’impostazione significativamente diversa a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 160 del 2019 alla disciplina della previgente imposta.

La vigenza fin dall’inizio del corrente anno della nuova imposta è, tuttavia, quasi del tutto formale in conseguenza del fatto che anche la sua applicazione richiedeva (e richiede) l’emanazione di un “provvedimento” del direttore dell’Agenzia delle Entrate che, in effetti, pur non essendo qualificato come “di attuazione”, è tuttavia destinato ad accogliere – come emerge dalla bozza di provvedimento diffusa dall’Agenzia delle Entrate (il “Provvedimento”) – talune disposizioni essenziali ai fini della concreta operatività dell’imposta.

Come abbiamo appena accennato, l’Agenzia delle Entrate ha appena diffuso e sottoposto a una fase di “consultazione” pubblica la bozza di Provvedimento e, sulla scorta delle disposizioni in esso contenute, è possibile provare a operare un primo inquadramento della nuova i.s.d.

Nell’accingerci ad affrontare, sia pure con la dovuta sintesi, tale compito, ci sembrano opportune due precisazioni preliminari.

La prima è di carattere formale.

Al fine di evitare di appesantire eccessivamente la lettura, nel prosieguo (i) ogni qual volta una disposizione sarà richiamata con la denominazione di “Punto”, ci si intenderà riferire alle disposizioni contenute nella bozza del Provvedimento; (ii) ogni qual volta, invece, la disposizione sarà richiamata con la denominazione di “Comma”, il riferimento deve intendersi fatto a uno dei commi da 35 a 50 dell’art. 1 della l. n. 145 del 2018 (come modificata dalla l. n. 160 del 2019) recante la disciplina dell’imposta sui servizi digitali; (iii) infine, con l’espressione “Proposta” sarà indicata la Proposta di Direttiva del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sui servizi digitali applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali COM (2018) 148 final del 21 marzo 2018 contenente la disciplina sostanzialmente riprodotta – su scala nazionale, anziché unionale – dall’art. 1, commi 35-50, della l. n. 145 del 2018.

La seconda puntualizzazione è di metodo.

A nostro avviso, nella disciplina di ogni imposta – conformemente alla definizione dei tributi come istituti giuridici – devono essere tenuti distinti la “fattispecie” e il “presupposto”. La fattispecie (astratta) è definita da quel complesso di norme che individuano i soggetti passivi, l’oggetto, il profilo territoriale, la base imponibile, ecc. del tributo. Il presupposto è, invece, la situazione di fatto che costituisce l’indice di capacità contributiva che il tributo considera quale elemento giustificativo della differenziata partecipazione di alcuni soggetti (quelli, cioè, cui il presupposto è riferibile) al finanziamento delle spese pubbliche.

I due profili (la fattispecie e il presupposto) sono concettualmente distinti, ma non indipendenti. In particolare, il presupposto può e deve essere identificato partendo dalla fattispecie (o, se vogliamo, la disciplina della fattispecie deve essere interpretata al fine di individuare il presupposto).

Alla stregua di tali premesse teoriche, procederemo, quindi, a inquadrare, preliminarmente, gli elementi essenziali della fattispecie dell’i.s.d. Poiché, peraltro, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il Comma 37 individua tre distinte ipotesi di servizi digitali – cui sono correlate distinte regole per ciò che riguarda il profilo territoriale, la determinazione dei “ricavi rilevanti”, la base imponibile ecc. – dovremo necessariamente, almeno in prima battuta, analizzare separatamente le tre distinte fattispecie.

Solo dopo aver completato tale ricognizione potremo effettivamente procedere a un tentativo di individuazione del presupposto dell’imposta.

2. Fattispecie, territorialità, ricavi rilevanti e base imponibile dei servizi di veicolazione di pubblicità mirata

Il primo tipo di servizi digitali rilevante ai fini dell’i.s.d. è individuato dal Comma 37, lett. a) nella “veicolazione di pubblicità mirata”.

Il complesso delle disposizioni relative contenute nei Commi 35-50 e nel Provvedimento a tale servizio indica che:

(i) la veicolazione è attività che si articola in due modalità operative: il collocamento presso le piattaforme digitali; e l’esposizione sulle piattaforme digitali [cfr. Punto 1, l)];

(ii) tali attività generano – nei rapporti fra il collocatore e l’espositore, da un lato, e fra il collocatore e il relativo committente, dall’altro – ricavi considerati, in linea di principio e salva la delimitazione operata dal successivo Punto 3.3, come “rilevanti” ai fini dell’imposta. Il Punto 3.5 definisce, infatti, come rilevanti i corrispettivi conseguiti vuoi nell’ambito dell’attività di collocamento presso interfacce digitali, vuoi quelli percepiti nell’ambito dell’attività di esposizione sulle interfacce medesime [in realtà il punto 3.5 fa riferimento ai soli siti web, ma si tratta, verosimilmente, di un refuso destinato ad essere corretto nella versione definitiva del Provvedimento in quanto in contrasto con la lett. a) del Comma 37 e con la definizione di interfaccia digitale di cui al Punto 1, g)];

(iii) come abbiamo appena accennato, la nozione di “ricavi rilevanti” è soggetta a una delimitazione assai significativa derivante da ciò che dall’ammontare mondiale di tali ricavi potenzialmente rilevanti è esclusa la parte che deriva da transazioni infragruppo (Punto 3.3 e Comma 38). Questo è un punto molto delicato perché, relativamente ai soli servizi digitali di veicolazione di pubblicità, tale regola significa che l’attività consistente nella veicolazione di pubblicità relativa a prodotti e servizi di altre società del gruppo non rileva mai ai fini dell’integrazione del presupposto dell’imposta. La società che svolge un’attività di veicolazione interamente captive, quindi, non è, in definitiva, un soggetto passivo dell’imposta. Detto diversamente, da questo punto di vista, la regola della “sterilizzazione” dei ricavi infragruppo, in questo caso, non è diretta ad evitare “duplicazioni” dell’imposta (come avviene là dove tale regola viene applicata relativamente ai servizi di messa a disposizione di interfacce digitali e dei servizi di trasmissione dati), ma ad attrare nella sfera applicativa della digital tax solo i servizi di veicolazione svolti nell’interesse di terzi, dove per terzi s’intendono tutti gli operatori diversi dalle società del gruppo;

(iv) una volta individuati i ricavi rilevanti – che è nozione attinente all’attività “mondiale” del soggetto passivo – si deve determinare qual è parte di essi che costituisce la base imponibile [nonché allo stesso tempo, la soglia di riferimento per l’assunzione della qualità di soggetto passivo dell’imposta ai sensi del Comma 36, lett. b)] in quanto “collegata” al territorio dello Stato. Tale quantificazione corrisponde a una percentuale consistente in un rapporto il cui numeratore è dato dal numero di messaggi di pubblicità mirata esposti su un’interfaccia digitale quando l’utente (al quale la pubblicità è mirata) è localizzato nel territorio dello Stato e il cui denominatore è rappresentato dal totale (mondiale) dei messaggi di pubblicità diretta esposti sull’interfaccia;

(v) una volta stabilita la predetta percentuale, i ricavi rilevanti a livello mondiale sono moltiplicati per essa pervenendosi, in tal modo, alla determinazione della base imponibile cui si applica l’aliquota del 3 per cento di cui al Comma 41.

Resta da precisare che la fruizione della pubblicità s’intende realizzata nel territorio dello Stato se l’utente si collega all’interfaccia digitale attraverso un dispositivo localizzabile nel territorio medesimo in base al suo indirizzo IP o, in difetto, in base ai sistemi di geolocalizzazione.

Prescindendo da alcuni ulteriori dubbi interpretativi posti dalla disciplina sommariamente illustrata – su taluni dei quali ritorneremo più oltre – possiamo adesso avviare la riflessione sull’individuazione dell’effettivo presupposto dell’imposta così com’è individuabile sulla scorta della fattispecie complessivamente descritta in precedenza. Una riflessione, si noti, solo preliminare, in quanto destinata a essere completata e integrata dalla considerazione anche della disciplina impositiva propria degli altri servizi di cui al Comma 37 che danno luogo a ricavi imponibili. Tuttavia, vista la complessità e astrattezza della disciplina qui considerata, sembra preferibile procedere per gradi e prendere in esame, almeno nella fase iniziale, le diverse ipotesi separatamente.

A questo riguardo, possiamo subito scartare l’ipotesi che il presupposto dell’imposta siano i ricavi, intesi come il risultato dell’attività di prestazione del servizio. Basta pensare al fatto che la prestazione del servizio da cui derivano i ricavi potrebbe essere resa – e, anzi, nella maggior parte delle ipotesi sarà effettivamente rese – a favore di soggetti privi di qualsiasi collegamento con il territorio dello Stato (ossia i committenti del collocamento o della esposizione della pubblicità mirata). Invero, come chiarisce anche la Relazione alla Proposta, i ricavi attengono al solo momento della “monetizzazione”, ossia della valutazione in termini monetari, dell’indice di capacità contributiva, ma non sono, in sé, l’indice medesimo.

Viceversa, l’intera disciplina ora descritta rende palese come l’imposta attribuisca rilevanza centrale al “dato”.

È una centralità che risulta evidente se si considera che non rilevano i servizi pubblicitari o i corrispondenti messaggi comunque esposti o collocati, ma solo quelli “mirati” ossia la pubblicità specificamente diretta all’utente in quanto i suoi contenuti sono determinati “in funzione dei dati relativi” all’utente medesimo. Ciò che rileva, in altri termini, è che la pubblicità sia il risultato di una profilazione dell’utente; e la profilazione, a sua volta, è un’attività che dipende dai dati relativi all’utente e da questi “forniti”.

In questa prospettiva, l’elemento decisivo ai fini dell’imponibilità non è l’attività pubblicitaria, ma quella che presuppone la (o dipende dalla) predetta “profilazione”.

In generale, infatti, un utile punto di vista per individuare il presupposto di un’imposta è quello di esaminare cosa distingue, sotto il profilo oggettivo, il soggetto che, a parità di ogni altra condizione, è escluso dall’imposta da quello che vi è sottoposto.

Considerando l’i.s.d. in questa prospettiva, risulta abbastanza chiaro che l’elemento discriminante è, per l’appunto, il fatto che il messaggio pubblicitario è veicolato in funzione di una previa attività di raccolta di dati relativi al suo destinatario e alla relativa elaborazione al fine di indirizzare al medesimo (ossia di “mirare”) un messaggio corrispondente al suo profilo (ossia ai suoi gusti, esigenze, abitudini ecc.).

Si tratta, a nostro avviso, di una scelta che – salvo ulteriori approfondimenti che sarà necessario operare nel momento in cui prenderemo in considerazioni gli altri due tipi di servizi che integrano la fattispecie oggettiva dell’imposta – appare eminentemente razionale, nella misura in cui la forza economica dei soggetti che operano in questo mercato si differenzia rispetto a quella di tutti gli altri soggetti che svolgono servizi pubblicitari proprio per il fatto di essere fondata sullo sfruttamento economico di una risorsa tutt’affatto peculiare (il “dato”) e sulla sua elaborazione; un “dato”, peraltro, acquisito “gratuitamente”, almeno nella prima fase, ossia in quella che va dal privato cui esso (dato) si riferisce al soggetto che lo “raccoglie” in via immediata.

Tuttavia, le considerazioni che precedono appaiono ancora generiche, essendo necessario ulteriormente chiarire sotto quale profilo il “dato” personale viene in rilievo.

Invero, se il presupposto dell’imposta consistesse (in modo indifferenziato) nella raccolta o nella detenzione o nella elaborazione dei dati nell’ambito del processo di profilazione, si dovrebbe osservare l’esistenza di uno iato (se non, addirittura, di un profilo di irrazionalità) nella definizione del profilo territoriale della fattispecie.

Invero, in tutte le ipotesi precedentemente indicate (ossia quelle in cui si supponesse di far consistere il presupposto nella raccolta, nella detenzione o nella elaborazione dei dati) il profilo territoriale dovrebbe essere congruente con tale presupposto e, quindi, si dovrebbero tenere in qualche misura distinti i dati raccolti nel territorio dello Stato o acquisiti da soggetti ivi localizzati da tutti gli altri dati.

Come abbiamo visto, però, ciò che rileva, ai fini del collegamento territoriale, è il numero di messaggi pubblicitari “fruiti” dall’utente nel momento in cui egli era localizzato nel territorio dello Stato.

Quindi, piuttosto che valorizzare la differente posizione dei soggetti del mercato digitale in funzione della massa di dati acquisita, detenuta o elaborata, l’imposta tende a diversificare il concorso alle pubbliche spese delle imprese collocatrici o espositrici di pubblicità in funzione della loro distinta capacità di diretto sfruttamento dei dati (detenuti e/o elaborati) in termini di “indirizzamento” degli stessi al fine di incidere sulle scelte e le preferenze dei consumatori localizzati nel territorio dello Stato.

Si potrebbe dire che il profilo rilevante è la capacità di “controllo del dato” che si realizza nell’efficace correlazione della pubblicità mirata al suo “bersaglio”. Ma si tratta di una conclusione del tutto provvisoria che dovrà essere vagliata e trovare conferma attraverso l’esame della disciplina dell’i.s.d. relativa agli altri due servizi digitali imponibili.

3. Fattispecie, territorialità, ricavi rilevanti e base imponibile dei servizi di trasmissione dei dati.

Il secondo tipo di servizi che conviene prendere in esame è quello di cui al Comma 37, lett. c), consistente nella «trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale».

Il motivo per il quale consideriamo questo tipo di servizi subito dopo il servizio di veicolazione di pubblicità mirata – nonostante esso occupi il terzo posto nell’elenco di cui al Comma 37 – dipende dal fatto che nella concezione originaria dell’imposta (ossia nella Proposta) la veicolazione di pubblicità e la trasmissione di dati appaiono connotati da un forte grado di complementarità.

Infatti, i due servizi digitali sono menzionati congiuntamente nella Relazione alla Proposta e il Considerando 17 della stessa conferma tale considerazione unitaria nel momento in cui indica, riferendosi all’imposta nel suo complesso, che «L’obiettivo dell’ISD sono i ricavi generati dalla trasmissione di dati ottenuti da un’attività molto specifica, ossia le attività degli utenti sulle interfacce digitali».

Sul punto avremo modo di ritornare.

Per il momento è sufficiente rilevare che:

(i) la trasmissione di dati è un servizio che si connota per un elemento che potremmo dire “giuridico” e per un elemento che potremmo definire “materiale”. L’elemento giuridico è l’attribuzione a terzi della possibilità di utilizzare i dati verso un corrispettivo (o, più genericamente, a titolo oneroso); l’elemento materiale è costituito dal tipo di dati oggetto di questa vicenda giuridica, infatti, ai fini dell’imposta, interessano solo i dati ottenuti dall’interazione di un utente con un’interfaccia digitale;

(ii) relativamente all’elemento giuridico prima indicato, né la Proposta, né la disciplina interna di fonte legale attribuiscono alcuna rilevanza allo specifico titolo giuridico in base al quale i terzi sono investiti della facoltà di utilizzare i dati. Invero, la stessa denominazione di questa fattispecie come “servizio” allude implicitamente alla circostanza (o, quantomeno, alla possibilità) che la forma giuridica della “trasmissione” non è la (cessione della) “proprietà” del dato, ma (la concessione di) talune facoltà di sfruttamento del valore economico dello stesso (volendo si potrebbe parlare di “godimento”). Stupisce, quindi, che nel Punto 3.11 si faccia riferimento ai dati “venduti totalmente o parzialmente e trasmessi”, che sembrerebbe indicare la necessità – a nostro avviso non coerente con la struttura generale dell’imposta – che concorrano due condizioni: l’alienazione e la trasmissione dei dati;

(iii) comunque sia, i ricavi rilevanti sono tutti quelli che derivano da tale attività al netto di quelli generati dai trasferimenti infragruppo. In questo caso, l’esclusione dei trasferimenti infragruppo ha propriamente lo scopo di evitare la doppia imposizione del medesimo presupposto (ma, qualunque sia la giustificazione, tale esclusione meriterebbe di essere rimeditata se si accoglie la tesi secondo la quale è rilevante ai fini dell’imposta solo il trasferimento da parte di chi è titolare dell’interfaccia attraverso cui si “raccoglie” il dato);

(iv) rispetto a tali ricavi astrattamente rilevanti, la quota imponibile è determinata sulla base di una percentuale costituita da un rapporto al cui numeratore è posto il numero degli utenti localizzati nel territorio dello Stato i cui dati sono stati trasmessi (e, se si segue l’impostazione del Provvedimento, venduti) e al denominatore il totale degli utenti che hanno generato dati complessivamente oggetto di trasmissione;

(v) è evidente che, in questo caso, si devia rispetto al criterio sulla cui base è calcolata la percentuale di imponibilità del servizio di pubblicità mira: si passa da un rapporto fra quantità di dati (sia pure espressa in termini di “messaggi”), a un rapporto fra quantità di utenti. La probabile giustificazione di questo criterio è la difficoltà di stabilire con esattezza il numero e/o il valore monetario dei dati riferibili a ciascun utente generati o raccolti nel territorio di uno specifico Stato e poi oggetto di “trasmissione”. Il criterio adottato costituisce, secondo la spiegazione proposta, una forma di semplificazione che in pratica considera ciascun utente come potenziale “fonte” di un numero costante e omogeneo di dati. Crederemmo che sia questa esigenza di semplificazione a costituire altresì la spiegazione del motivo per il quale il numero di utenti “localizzati” da porre al numeratore comprende non solo quelli la cui localizzazione è avvenuta nel periodo d’imposta di riferimento, ma anche quelli in cui la localizzazione si è realizzata nei periodi anteriori;

(vi) anche in questo caso, una volta individuata la predetta percentuale, i ricavi rilevanti a livello mondiale sono moltiplicati per essa pervenendosi, in tal modo, alla determinazione della base imponibile cui si applica l’aliquota del 3 per cento di cui al Comma 41.

La disciplina appena tratteggiata evidenzia ancora una volta, com’è chiaro, la centralità dei dati.

Essa appare marcatamente orientata alla individuazione dei dati raccolti mediante la consultazione di un’interfaccia riferibile (secondo il criterio della localizzazione) al territorio dello Stato sui quali il soggetto passivo dell’imposta esercita un potere dispositivo (la “trasmissione”) consistente nel legittimare l’uso degli stessi da parte di terzi.

E questa prospettiva sembrerebbe ulteriormente rafforzata ove si consideri che – secondo un’interpretazione legittimata dal Considerando 17, ancorchè non chiaramente esplicitata nella disciplina della Proposta e ancor meno nella disciplina interna – la “trasmissione” rilevante (ossia l’unica i cui ricavi sarebbe soggetti a imposta) dovrebbe essere solo quella propria del soggetto titolare dell’interfaccia attraverso la cui consultazione si realizza la raccolta di dati per la successiva trasmissione. Il che sembrerebbe coerente anche con la logica applicativa dell’imposta, giacché coloro che pongono in essere le successive “trasmissioni” dei dati potrebbero non disporre (anzi quasi sempre non disporranno) delle informazioni necessarie per determinare la percentuale di imponibilità.

Secondo la prospettiva illustrata, il controllo sui dati rilevante ai fini dell’imposta sarebbe, allora, quello congiuntamente derivante sia dalle particolari modalità di acquisizione, sia dalla presenza di un atto di disposizione a titolo oneroso dei dati.

Il criterio ispiratore della disciplina impositiva propria di questi servizi digitali appare, quindi e secondo quanto si era anticipato, strettamente contiguo a quello della tassazione dei servizi digitali di pubblicità mirata.

Nel caso dei servizi di pubblicità mirata, come abbiamo visto, il profilo rilevante è quello del potere di sfruttamento dei dati nell’orientare la “direzione” (in termini di contenuti confacenti ai gusti e alle esigenze del destinatario) del messaggio pubblicitario; nel caso dei servizi di trasmissione di dati, il profilo rilevante è quello del controllo dei mezzi di acquisizione dei dati e della capacità di disporne nell’interesse altrui.

Anzi, a dire il vero, la predetta complementarità potrebbe sembrare tale da legittimare il dubbio che vi possa essere l’esigenza di un coordinamento fra i prelievi fiscali relativi ai due diversi tipi di servizio. È evidente, infatti, che il soggetto che è destinatario della trasmissione di dati può essere, a sua volta, un collocatore di pubblicità mirata.

Si tratta, tuttavia, di un dubbio che deve essere risolto negativamente proprio nella prospettiva qui privilegiata.

Invero, se il presupposto dell’imposta fosse da individuarsi nel “risultato dell’attività”, l’esigenza di coordinamento sarebbe particolarmente stringente, perché non potrebbe negarsi che il servizio di trasmissione dei dati e il servizio di pubblicità mirata si collocano nella medesima “catena del valore”.

Se, tuttavia, si considera la vicenda dal punto di vista del potere di controllo sui dati, l’esigenza di coordinamento diventa assai meno stringente (ancorché, forse, senza annullarsi completamente) perché le due forme di controllo, sebbene logicamente implicate, restano pienamente distinte e autonomamente rilevanti.

4. Fattispecie, territorialità, ricavi rilevanti e base imponibile dei servizi di messa a disposizione di interfacce digitali multilaterali.

L’ultimo servizio digitale – alla stregua dell’ordine di esposizione prescelto, ma in realtà il secondo in base all’elencazione di cui al Comma 37 – è quello della «messa a disposizione di un’interfaccia multilaterale».

La nozione di interfaccia multilaterale non è univoca. Nella letteratura economica e aziendalistica il fenomeno ha formato oggetto di molte definizioni che, proprio per la loro varietà, conducono a individuare categorie con perimetri applicativi significativamente differenziati.

La Relazione alla Proposta (la quale ultima costituisce, è appena il caso di ribadirlo, la base pressoché esclusiva di riferimento dell’i.s.d. nazionale), muovendo da un’analisi nella quale si fa riferimento alle diverse modalità di “creazione del valore” nell’ambito delle imprese digitali, individua una delle modalità tipiche in quella che «[…] consiste nella partecipazione attiva e continuativa degli utenti sulle interfacce digitali multilaterali, che si basano sugli effetti di rete in cui, in generale, il valore del servizio aumenta in funzione del numero di utenti che utilizzano l’interfaccia. Il valore di tali interfacce risiede nei collegamenti tra gli utenti e nelle interazioni tra di essi».

È questa, dunque, la realtà operativa che costituisce il punto di riferimento della disciplina, ossia una forma d’impresa che si concretizza nella costituzione di una rete tendenzialmente aperta sia sul lato dell’offerta, sia sul lato della domanda (ed è per questo multilaterale) e il cui valore dipende (secondo un circolo potenzialmente virtuoso) dalla creazione di un effetto di rete in cui all’espansione da un lato (il numero degli offerenti o dei potenziali acquirenti) conduce a un ampliamento dall’altro. È la logica, detto altrimenti, delle fiere medioevali, dove l’incremento dei visitatori determinava un incremento dei venditori a cui faceva seguito un corrispondente incremento dei visitatori. Le differenze consistono nel fatto che la frequentazione del mercato e l’interazione fra gli “utenti” sono meramente “digitali” nonché, per quanto qui interessa, nella circostanza che ai benefici (anche in termini fiscali) che le fiere producevano nei luoghi geografici ove esse si svolgevano, si sostituisce l’utilità del soggetto titolare dell’interfaccia multimediale.

È proprio su tale “utilità” che interviene l’i.s.d. la quale prevede:

(i) la distinzione fra due tipi di interfacce multimediali: quelle in cui l’interazione fra gli utenti è finalizzata a facilitare la conclusione diretta di scambi e quelle nelle quali si svolge un’interazione che consente la mera creazione di un collegamento fra utenti che solo in via mediata potrebbe dar luogo a uno scambio;

(ii) coerentemente con tale distinzione, le interfacce digitali multimediali sono diversamente considerate a seconda che esse diano luogo a ricavi connessi agli scambi effettivamente realizzati o a corrispettivi richiesti per l’accesso all’interfaccia medesima;

(iii) tali ricavi (al netto, sempre di quelli realizzati infragruppo), ovunque realizzati, sono “rilevanti” ai fini dell’imposta: ovviamente quelli connessi agli scambi sono rilevanti al netto del corrispettivo pagato per l’acquisto di beni e servizi;

(iv) i ricavi rilevanti realizzati a livello mondiale sono imponibili solo per la parte riferibile al territorio dello Stato la quale è determinata sulla base di una percentuale costituita: (a) nel caso dei ricavi derivanti dalla messa a disposizione di interfacce che agevolano gli scambi, dal rapporto fra il numero delle consegne di beni e delle prestazioni di servizi di cui almeno una controparte sia localizzata nel territorio dello Stato in base all’IP del dispositivo dal quale accede (restando dubbio, in base all’attuale formula del Punto 4.4, se la “localizzazione” debba essere individuata per ogni singola consegna oppure se un singolo ordine localizzato nel territorio dello Stato attragga nel numeratore anche tutte le ulteriori consegne fatte al medesimo utente, ancorchè la conclusione dello scambio non abbia implicato l’uso di un dispositivo “localizzato”) e il numero totale di consegue worldwide; (b) nel caso di ricavi derivanti dalla messa a disposizione di interfacce digitali che facilitano solo la comunicazione (ma non, in via immediata, gli scambi) la percentuale d’imponibilità è calcolata come rapporto fra il totale degli utenti che hanno un conto (o, in termini anglosassoni, un account) aperto (anche solo per una parte dell’anno) attraverso un dispositivo localizzato nel territorio dello Stato e il totale di tutti gli utenti;

(v) ovviamente, come per gli altri tipi di servizi digitali imponibili, il prodotto fra la percentuale, calcolata come sopra, e il totale dei ricavi rilevante determina la base imponibile dalla quale si ricava l’imposta applicando l’aliquota di al Comma 41.

Al di là di alcuni profili della disciplina non perfettamente chiari o non del tutto condivisibili nella prospettiva della razionalità complessiva del prelievo sui quali non è il caso di soffermarsi in questa sede (sia perché forse qualcuna di tali imperfezioni sarà risolta nella versione definitiva del Provvedimento, sia perché la correzione può avvenire attraverso l’interpretazione), ciò che occorre osservare è che, a ben guardare, anche in questo caso, sebbene in modo meno immediato, i dati assumono una rilievo del tutto centrale.

Come abbiamo già rilevato, infatti, la definizione stessa di interfaccia digitale multilaterale fa leva sui “collegamenti” e sull’“interazione” fra gli utenti che questa rende possibili.

Ma collegamenti e interazioni non sono altro che scambi di dati, cosicché l’interfaccia (rectius il soggetto che ne è titolare) si caratterizza per la sua attività di controllo sui dati scambiati.

Si diceva che, nella definizione della fattispecie di questo servizio, è meno appariscente la centralità dei dati e del potere sugli stessi rispetto ai casi precedentemente considerati.

Ciò è dovuto al fatto che l’interfaccia appare, da questo punto di vista, essenzialmente come un sistema di “comunicazione”, piuttosto che come un sistema di “controllo”. Ma si tratta di un’impressione superficiale, perché anche nel mondo non digitale la titolarità delle vie di comunicazione garantisce, al tempo stesso, anche un controllo sulla comunicazione medesima.

5. Dalla fattispecie al presupposto

Nell’esaminare le fattispecie dei servizi imponibili e delle forme d’imposizione abbiamo sempre riservato alcune considerazioni finali relative all’elemento – implicito nella definizione delle singole fattispecie, ma non coincidente con esse – che ci è parso costituire la reale giustificazione dell’imposta, cioè il motivo per il quale solo determinati soggetti, e non altri, sono tenuti a contribuire (o, se si preferisce, a concorrere) al finanziamento delle spese pubbliche al verificarsi delle predette fattispecie.

Volendo, a questo punto, tirare le fila del discorso, occorre vedere se quegli elementi giustificativi si lasciano riassumere in un criterio unitario idoneo a individuare la specifica forza economica dei soggetti passivi dell’i.s.d. che costituisce il fondamento della loro posizione differenziata rispetto agli altri soggetti dell’ordinamento. Altrimenti detto, occorre vedere se è possibile ricostruire un autonomo indice di capacità contributiva, ovvero uno specifico presupposto del tributo.

Ovviamente, la risposta è in larga misura condizionata dall’adesione alle tesi secondo cui gli unici indici di capacità contributiva concepibili sono il reddito, il patrimonio o il consumo, ovvero alla diversa prospettiva secondo la quale reddito, patrimonio e consumo sono, in definitiva, null’altro che espressioni mediate della capacità (differenziata) dei soggetti dell’ordinamento di soddisfare i propri bisogni e interessi e, come tali, coesistono naturalmente con altre espressioni della medesima capacità.

Se si adotta questo secondo punto di vista – che ha avuto anche l’avallo della Corte Costituzionale la quale, nella sentenza n. 288 del 2019 ha affermato che «in un contesto complesso come quello contemporaneo, dove si sviluppano nuove e multiformi creazioni di valore, il concetto di capacità contributiva non necessariamente deve rimanere legato solo a indici tradizionali come il patrimonio e il reddito, potendo rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, che ben possono denotare una forza o una potenzialità economica» – appare assolutamente giustificata la scelta di ritenere rilevante come indice di capacità di contributiva (ossia, di assumere a presupposto dell’i.s.d.) il potere sui dati.

Un potere che, a nostro avviso assai correttamente, si lascia giustappunto declinare in almeno tre modi diversi: come potere di controllare il flusso dei dati, come potere di controllarne l’acquisizione in vista della loro disposizione a titolo oneroso degli stessi e, infine, come potere di indirizzare i dati a forme di pubblicità intese a orientare le scelte degli utenti del mercato digitale.

Peraltro, è bene evidenziare che queste tre declinazioni del potere sui dati non sono affatto reciprocamente esclusive. Secondo quanto si è in parte accennato, e come qui occorre ribadire, è certamente possibile – e, forse, è addirittura fisiologico – che almeno taluni dei soggetti del mercato digitale integrino il presupposto nella sua triplice declinazione. Per intenderci, un’interfaccia digitale multilaterale, oltre a esercitare il potere di controllo sul flusso di dati, acquisirà i dati medesimi dei quali potrà sia disporre attraverso la loro trasmissione, sia procedere alla loro elaborazione al fine di collocare pubblicità mirata.

Cosicché le tre fattispecie in cui si articola la disciplina sommariamente esaminata sono correttamente oggetto di una considerazione unitaria, perché tutte concorrono a cogliere un profilo, distinto ma complementare, di un potere multiforme.

6. Le criticità

Il giudizio positivo relativo all’individuazione del presupposto non esclude tuttavia che la disciplina possa comunque presentare altri profili di criticità.

Quello, fra essi, che risulta maggiormente evidente è ravvisabile nei criteri di collegamento territoriale prescelti.

A nostro avviso, il profilo territoriale di un tributo in tanto è razionale e accettabile in quanto sia idoneo a cogliere un aspetto dell’appartenenza (variamente graduata) del soggetto passivo alla collettività organizzata alle cui spese egli è chiamato a contribuire in ragione del tributo di volta in volta considerato.

A prescindere da alcuni dubbi sulla razionalità “interna” dei singoli criteri di collegamento normativamente previsti per l’i.s.d., la perplessità più rilevante è, per l’appunto, quella relativa all’idoneità di tali criteri a individuare e misurare l’appartenenza dei soggetti passivi di quest’imposta alla collettività organizzata.

È evidente che, rispetto al complesso e sfuggente mondo dell’attività digitale, è difficile individuare criteri che assolvano a tale funzione con precisione chirurgica. Si deve dare per scontato, in altri termini, il ricorso a criteri di collegamento che tendano solo realizzare approssimazioni (in qualche misura anche grossolane) rispetto a un effettivo indice di appartenenza nel senso predetto.

Nondimeno, i criteri di collegamento specificamente previsti dalla disciplina dell’i.s.d. appaiono, specie alla stregua delle interpretazioni più radicali a cui si prestano le pertinenti disposizioni, quasi del tutto avulsi da ogni effettiva capacità di riferire il dovere tributario a un soggetto almeno per qualche significativo profilo appartenente alla collettività che richiede l’assolvimento di quel dovere per il finanziamento delle proprie spese pubbliche.

La dimostrazione analitica di questa affermazione esorbita dall’economia di questo intervento. Ma è sufficiente la lettura delle varie disposizioni concernenti questo profilo a rendere almeno intuitivamente chiaro il senso della nostra critica.

Anche la disciplina dei gruppi non sembra andare indenne da rilievi critici o, quantomeno, da serie perplessità.

Nemmeno in questo caso possiamo condurre, al riguardo, un’analisi di dettaglio e ci sembra sufficiente dire che, se l’intenzione alla base della “sterilizzazione” delle transazioni infragruppo appare, in astratto, sicuramente condivisibile, la sua concreta disciplina sembra prestarsi a distorsioni se non, addirittura, ad arbitraggi.

E questo (quantomeno) perché non sempre alla fine di una serie di prestazioni di servizi digitali infragruppo (o, meglio, all’esito di una serie di atti che concretizzano l’esercizio del potere di controllo sui dati nei vari modi considerati) vi è una prestazione di servizi idonea a generare ricavi rilevanti, essendo ben possibile, invece, che il valore di quel servizio digitale sia “incorporato” in altri servizi produttivi di ricavi non rilevanti e/o non imponibili.

Un’attenta analisi – condotta anche muovendo da una concreta e approfondita conoscenza delle multiformi caratteristiche del mercato rilevante – probabilmente può evidenziare altri profili di criticità.

In questa sede, i rilievi svolti ci sembrano sufficienti a indicare che l’i.s.d. appare il frutto di una concezione coerente e condivisibile a livello di principi, ma la cui realizzazione pratica richiede, affinché si pervenga ad esiti altrettanto coerenti e condivisibili, un ulteriore sforzo di elaborazione.

Torna in alto