Guglielmo Fransoni

SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL CANONE PER LA TRASFORMAZIONE DELLE DTA AI SENSI DELL’ART. 55 DEL DECRETO “CURA ITALIA”

1. L’oggetto della riflessione

L’art. 55 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto “Cura Italia”) introduce una speciale disciplina di trasformazione delle attività per imposte anticipate (DTA) riferite a perdite fiscali e alle eccedenze di ACE riportabili commisurata al venti per cento del valore nominale dei crediti deteriorati ceduti fino al 31 dicembre 2020.

Si tratta di un regime opzionale che, ai sensi del comma 3 dell’art. 55, segue le regole dell’art. 11, comma 1, del d.l. n. 59 del 2016.

In altri termini, per effetto dell’opzione è dovuto annualmente e fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2029 il c.d. “canone” disciplinato dal predetto art. 11 il quale è determinato applicando l’aliquota dell’1,5 sulla differenza fra le variazioni dello stock di DTA trasformabili e trasformate rispetto al periodo d’imposta 2008 e le imposte pagate dalla società.

Il presente contributo si propone di condurre, anche nella prospettiva della conversione in legge del decreto “Cura Italia”, un’ulteriore riflessione su tale regime in relazione alla cui razionalità sono stati già evidenziati taluni dubbi (cfr., G. Manguso, Perdite e Ace, trasformazione delle DTA più efficace senza canone, in Norme e Tributi+Fisco, Sole 24 ore del 26 marzo 2020).

2. L’originaria ratio del “canone”

Per comprendere i dubbi ai quali si è fatto cenno, occorre prendere le mosse dalla versione originaria del “canone” al fine di comprenderne (o, meglio, di ricordarne) la ratio e, poi, verificare se essa possa risultare congrua rispetto al “canone” previsto dal citato art. 55 del decreto “Cura Italia”.

Al riguardo, è sufficiente rammentare che il “canone” di cui all’art. 11 del d.l. n. 59 del 2016 era (ed è) dovuto dalle imprese «interessate dalle disposizioni di cui all’articolo 2, commi da 55 a 57, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225» le quali potevano conservare il diritto alla trasformazione di talune DTA in crediti d’imposta a condizione, appunto, di applicare il suddetto “canone”.

La trasformazione di DTA in crediti d’imposta condizionata all’applicazione del canone è, in particolare, quella di cui ai commi 55-57 dell’art. 2, del d.l. n. 225 del 2010, ossia una particolare regime agevolativo finalizzato a colmare il «divario di incidenza delle imposte anticipate nei bilanci degli operatori italiani (in particolare gli enti creditizi e finanziari) rispetto a quelli europei, divario che dipende significativamente da regimi fiscali meno favorevoli, quali ad esempio l’impossibilità di dedurre integralmente le rettifiche su crediti nell’anno di formazione, che determina la generazione di attività fiscali differite» (cfr. la relazione illustrativa al d.l. n. 225 del 2010).

È noto che tale disciplina, originariamente applicabile senza che fosse dovuto il predetto “canone”, aveva formato oggetto di scrutino da parte della Commissione Europea la quale aveva informalmente evidenziato la sua potenziale incompatibilità con il divieto di aiuti di Stato di cui all’art. 107 TFUE inducendo così (dapprima la Spagna e, poi,) l’Italia a rimediare a tali dubbi mediante l’introduzione del predetto “canone”.

Invero, la disciplina della trasformazione delle DTA in crediti d’imposta, sebbene abbia una struttura formalmente “generalizzata” opera in modo nettamente preponderante a vantaggio degli istituti di credito. Cosicché essa presenta, nei fatti, i caratteri della “selettività materiale” che costituiscono uno degli connotati strutturali degli aiuti di stato. Infatti, tale requisito può ritenersi soddisfatto, giacché «si può ritenere che vi sia selettività di fatto nei casi in cui, anche se i criteri formali per l’applicazione della misura sono formulati in termini generali e oggettivi, la struttura della misura è tale che i suoi effetti favoriscono in modo significativo un particolare gruppo di imprese» [così la Comunicazione della Commissione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all’articolo 107, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (2016/C 262/01)]

La ratio del “canone”, in tale prospettiva, è, dunque, quella di eliminare il carattere marcatamente agevolativo di una particolare misura fiscale collegando alla stessa una «misura rivolta a tutte le imprese, in particolare quelle finanziarie che detengono la quasi totalità delle DTA interessate relative alle rettifiche su crediti e ai maggiori valori fiscali affrancati di avviamento e di altri beni immateriali per le quali l’opzione per il pagamento del canone consente di mantenere la computabilità delle DTA ai fini della determinazione del patrimonio netto di vigilanza» (cfr. la relazione al d.l. 59/2016).

Questa impostazione, peraltro, ha consentito anche di affermare che il “canone” – nonostante per la sua disciplina di attuazione e processuale si faccia rinvio alle disposizioni in materia di imposte sui redditi – non sia un tributo ma una sorta di premio assicurativo da corrispondere per mantenere il diritto a trasformare quelle DTA qualificate che non sono coperte da imposte versate.

3. La ratio della trasformazione dei crediti di cui al decreto “Cura Italia”.

La disciplina recata dall’art. 55 del decreto “Cura Italia” ha una ratio del tutto diversa rispetto alla trasformazione delle DTA prevista dall’art. 2, commi 55-57, del d.l. 225 del 2010.

La relazione al decreto chiarisce, infatti, che «la disposizione è volta a incentivare la cessione di crediti deteriorati che le imprese hanno accumulato negli ultimi anni, anche per effetto della crisi finanziaria, con l’obiettivo di sostenerle sotto il profilo della liquidità nel fronteggiare l’attuale contesto di incertezza economica. I crediti deteriorati oggetto dell’incentivo possono essere sia di natura commerciale sia di finanziamento. Anche per ridurre gli oneri di cessione, la disposizione introduce la possibilità di trasformare in credito d’imposta una quota di attività per imposte anticipate (DTA) riferite a determinati componenti, per un ammontare proporzionale al valore dei crediti deteriorati che vengono ceduti a terzi».

In pratica, la trasformazione delle DTA in crediti d’imposta è una misura compensativa (a carico della fiscalità generale) dell’onere sopportato dalle imprese che cederanno i crediti deteriorati al fine di favorire il reperimento di una maggiore liquidità.

Rispetto a una simile disciplina i dubbi di compatibilità con il divieto di aiuti di Stato vengono meno.

In primo luogo, sembra di poter dire che, poiché le DTA oggetto di trasformazione non hanno precipuamente natura “bancaria” – ossia non derivano dall’applicazione di una disposizione specificamente applicabile agli intermediari finanziari qual è, invece, l’art. 106 del t.u.i.r. che assume un ruolo preponderante nell’ambito dell’art. 2, commi 55-57, del d.l. n. 225 del 2010 – la disciplina del decreto “Cura Italia” ha (non solo formalmente, ma anche) sostanzialmente natura generale e non selettiva.

Ma anche se non si condividesse tale conclusione e si ritenesse che la misura sia effettivamente selettiva e, come tale, concettualmente riconducibile alla nozione di aiuto di stato, non si deve dimenticare che tale agevolazione è finalizzata a mitigare la crisi di liquidità derivante dall’epidemia da Covid-19. Cosicché si tratterebbe di una misura pur sempre riconducibile alla nozione di «aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali» di cui all’art. 107, par. 2, lett. b) TFUE e, come tali, compatibili de iure e sottratti al regime autorizzativo (inteso in senso proprio) degli aiuti di stato in genere (per alcune considerazioni su tale nozione rinviamo a quanto osservato in “Coronavirus e aiuti di stato”).

4. La conseguente ratio del canone nell’ambito del decreto “Cura Italia”

Se, quindi, la disciplina agevolativa della trasformazione delle DTA in crediti d’imposta prevista dall’art. 55 del decreto “Cura Italia” non presenta problemi di compatibilità con il divieto di aiuti di stato, muta necessariamente anche la giustificazione del “canone” dalla cui applicazione dipende la conversione delle DTA.

Il “canone”, infatti, può essere considerato una misura volta ad elidere la potenziale incompatibilità con il divieto di aiuti di stato della disciplina che ne determina l’applicazione, solo se e nella misura in cui tale disciplina presenti, appunto, il rischio di violare il predetto divieto.

Ma se il regime non costituisce un aiuto di stato (per difetto del requisito della selettività) o è, comunque, un aiuto di stato compatibile de iure, allora anche il “canone” modifica la sua giustificazione razionale.

Innanzi tutto, non si può sfuggire alla qualificazione del “canone” come una vera e propria imposta.

La tesi che, secondo quanto si è riferito, attribuiva al “canone” la natura di premio assicurativo per mantenere il diritto alla conversione delle DTA di cui all’art. 2, commi 55-57, del d.l. n. 225 del 2010 – oltre a risultare comunque alquanto forzata in presenza di una disciplina attuativa e processuale totalmente modellata su quella dei tributi (non fosse altro perché, in questo modo, la disciplina sarebbe risultata palesemente incostituzionale non potendosi estendere la giurisdizione delle commissioni a materie non tributarie) – risulta insostenibile là dove, per i motivi anzidetti, il canone non assolve in alcun modo a tale funzione.

Nella prospettiva del prelievo tributario, il “canone” presenterebbe punti di contatto con un’imposta che ha visto la sua apparizione oltre vent’anni fa, ossia il tributo posto a carico dei datori di lavoro e commisurato alla “liquidità” corrispondente ai TFR accantonati per i propri dipendenti.

In quella occasione, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di tale forma d’imposizione, osservò che essa non era costituzionalmente illegittima perché «Le quote di accantonamento del TFR (sia meramente contabili, come passivo iscritto in bilancio, o reali) rappresentano, comunque, una disponibilità per il datore di lavoro, come forma di autofinanziamento, indicativo di capacità contributiva […] Pertanto non appare manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di considerare come indice di capacità contributiva, legata alla struttura della imposta – ciò in relazione anche alla entità delle aliquote – la disponibilità da parte del datore di lavoro delle somme corrispondenti ai TFR maturati ad una certa data: il collegamento tra imposizione e disponibilità del TFR non é palesemente arbitrario» (così, Corte cost., sent. n.155 del 2001).

Se, quindi, la disponibilità di crediti d’imposta conseguenti alla trasformazione di DTA potrebbe, in astratto, ritenersi un indice di capacità contributiva (alla pari di quanto ritenuto dalla Corte costituzionale con riguardo alla liquidità derivante dall’accantonamento del TFR), vi sono però, nella struttura del “canone”, ove qualificato come imposta, taluni aspetti che convincono assai meno della sua legittimità costituzionale.

In primo luogo, vi è il fatto che alla formazione della base imponibile del “canone”, almeno nella vigente disciplina, concorrono, oltre alle DTA trasformate, anche le DTA trasformabili. Ossia DTA che, nel momento in cui viene corrisposto il canone non hanno dato luogo ad alcuna “monetizzazione” e che potrebbero anche non formare mai oggetto di trasformazione.

La disciplina del “canone” nell’ambito dell’art. 55 del decreto “Cura Italia” presenta, poi, l’ulteriore particolarità di risultare, sostanzialmente, “regressiva” (facendo riferimento a tale termine in un senso molto lato).

Cercherò di spiegarmi meglio.

Applicando esattamente la modalità di commisurazione del “canone” prevista dall’art. 11 del d.l. n. 59 del 2016, l’entità dello stesso, a parità di valore assoluto delle DTA trasformate, decresce al crescere delle imposte “versate” (anche mediante l’utilizzo del credito d’imposta derivante dalla trasformazione).

Val quanto dire che quanto maggiore è la liquidità effettivamente realizzata, attraverso l’utilizzo del credito d’imposta, tanto minore è il canone dovuto.

Ora, questo meccanismo aveva un senso nel contesto originario di applicazione del “canone”, perché il “vantaggio” selettivo che il “canone” intendeva eliminare – al fine di fugare i dubbi sulla compatibilità del regime della trasformazione in crediti d’imposta con il divieto di aiuti di stato – era costituito proprio dal fatto che le DTA trasformabili erano “prive di copertura”, ossia non corrispondevano a imposte già pagate, ma di competenza di anni futuri. Cosicché, in questa prospettiva, era logico che l’ammontare del canone decrescesse al crescere della “copertura”, ossia via via che si registrasse un aumento delle imposte versate.

Ma se il “canone”, nel nuovo contesto, non assolve più la funzione di eliminare il potenziale contrasto della disciplina con il divieto di aiuti di stato – per i motivi sinteticamente accennati in precedenza – e si risolve in un mero tributo sulla liquidità, la riduzione del suo ammontare al crescere delle imposte versate costituisce una soluzione normativa assai meno razionale.

E ciò, specialmente, in un contesto come quello attuale e in considerazione della ratio complessiva della trasformazione: se, infatti, lo scopo di questo regime è quello di sostenere le imprese in crisi di liquidità, l’applicazione del “canone” (che, lo ricordiamo, è astrattamente dovuto per altri 10 anni) finisce per essere maggiormente penalizzante proprio, e paradossalmente, per le imprese con una struttura economica e finanziaria più debole – le quali conseguiranno redditi imponibili dopo un maggior numero di anni – e che, quindi, avrebbero bisogno di un maggiore sostegno.

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